Amarepart

Per la quarta volta, ecco Apichatpong Weerasethakul in sala Valéry. Il metro poetico del regista, temi e linea sono chiari. Nel 2015, con "Cemetery of Splendour", il thailandese realizzò forse il suo lavoro più solido, mannaggia per quel solito stroppiare, qui colato pure in luce verderossablu.
Ospedale militare. Aridaje...La filmografia di Apichatpong è un unico lungo, sussurrato monologo. Si chiacchiera, certo, con parenti, amici, passanti, divinità, morti. "Non come un tempo". Jen, sarà lei, sempre lei (Jenjira Pongpas Widner, classe 1958), a vagare tra i letti portandoci appresso. Reparti micromondo, sondabile per ore e ore e or (secondo il regista). Tra grandi illusioni e piccole verità. La zia, invece, vede le vite passate toccando i dormienti (FBI). Neanche una cagata tra le frasche, così biologicamente intensa, verrà omessa. "Se avete cancro, ipertensione o AIDS, respirate" (oggi verrebbe radiato). Nelle città, determinati annoiati corrono da fermi. Chiusura analoga alla "Sindrome", cui questa pellicola è sovrapponibile. Ognun s'arrangia, come e dove può, abbiamo capito.
Sin qui il mio preferito, con intreccio più compatto, più chiaro, così da permettermi di unire immagini e narrazione (l'episodio delle due "statue"), operazione spesso difficoltosa nei film del thailandese. Come detto, solito sopore cronico (pure gli attori si addormentano), peggiorato tutto con l'abuso di led e acuito da imperdonabili insegne aforistiche (poi orribili visioni malickiane; cellulari sfoderati a caso).
Diamo atto all'autore di Bangkok di avere una sua coerenza. Non so quanto possa durare. Io, intendo.
(depa)

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