Oltre una frontiera nessuna civiltà

Fine luglio di commedia italiana. Mezz'estate da "100 da salvare". Un altro milanese, questa volta classe 1922, sondò con acume e delicatezza gli intimi gorghi ed abissi degli italiani del post boom, disillusi, frustrati, tenaci come ogni uomo. "Pane e cioccolata" (1974), quinto film di Franco Brusati, scomparso nel 1993, narra d'un italiano emigrato in Svizzera. Per lavoro, e qualcos'altro. Non v'è altra strada se non stai al gioco (e non sei giocatore di classe).
Visto in Sala Valéry in omaggio ai ragazzi del Laboratorio Bellamy, che propongono cinema nei caruggi di Zena.

Svizzero? No, è Stato

La settimana scorsa, nella Sala-che-sapete, è tornato Marco Ferreri (1928-1997), il regista milanese che inzaccherò senza indugio il palcoscenico di una società borghese luminosa e famelica quanto vuota e brancolante. "L'udienza", del 1971, oltre a ciò, è un piccolo gioiello di delicatezza, ode ai tanti piccoli uomini dinanzi ad assurdi giganti. Lo sgomento del protagonista, Enzo Jannacci calzante nella sua mimica unica, al cospetto di una Chiesa che pare ben comprendere e condividere i mezzi dello Stato: burocrazia alienante, retorica ammaliante e repressione braccante.

...portano a Tebe

Dopo l'interruzione causata dalla notte passata nell'attico dei Mignoidi (uscir d'ufficio e manco dover tornare a casa...e che ombrina! Grazie), ligio alle responsabilità verso la Sala Valéry, l'ho raggiunta con un altro Pier Paolo Pasolini in mano. "Edipo Re" trasposizione della tragedia sofoclea, scritta e diretta nel 1967, perlustra l'elementare senso di colpa che ogni individuo porta con sé. Ancor più in società capitalistiche. A fortiori tra gli affamati. Quindi sì, inevitabili riferimenti autobiografici. Universali.

Giustizia nei cieli

La Santa Sala (Valéry), ieri sera, ha sparso sacre parole su me e il mio divano. Verba per una sincera adesione a dio, scevra di vanità, per un'autentica redenzione, priva di opportunismo. "Il Vangelo secondo Matteo", scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini nel 1964, fedele al testo omonimo, ribadisce l'affascinante idea di un Gesù Cristo umile tra gli umili. Peccato che i postumi suoi rappresentanti e delegati, da veri "scribi e farisei ipocriti", abbiano lavorato per millenni in senso opposto; poiché, vedendo questa solenne rappresentazione di un figlio di dio coerente e rabbioso, interpretato da un sindacalista antifranchista, stavo quasi per credere. Ad ogni modo, mise-en-scène di grand'effetto, tra volti caricati e sinfonie glorificanti. Da vedere.

"Lettera affettuosa di scherno..."

E basterebbe la panoramica iniziale, sulla spiaggia punteggiata da brandelli di giornale e carcasse di barche. Ma no, complici la scrittura magica che permette di seguire tutti i balzi ed i cinguettii della sognante protagonista ed una regia sensibile che la scruterà con delicatezza, da una sequenza indimenticabile si passerà ad un'altra ch'è un gioiello. "Io la conoscevo bene", scritta e diretta nel 1965 da Antonio Pietrangeli, è una pellicola di rara intensità sulla solitudine femminile, intrinseca alla società del consumo e dello spettacolo.

Vite bugiarde

La millecinquecentesima è stata d'argento. Prosegue l'andamento positivo nelle "nostre" sale: Elena pare fidarsi maggiormente del grande schermo e del proprio giudizio. Inoltre, memori delle positive impressioni sul precedente lavoro di Pablo Trapero: con nonchalance verso l'"Ariston". "Il segreto di una famiglia" (2018, t.o. "La Quietud") è ancora meglio del precedente; una discesa agli inferi delle nostre menzogne ed ipocrisie. Società ed individuo s'accusano reciprocamente, di chi la colpa di tanto obbrobrio?

Maschere di sé

Come promesso, caro Cinerofum, non perdo tempo e corro appresso al gabbiano di celluloide. Difatti, qualche lunedì fa, ho acchiappato il penultimo lavoro di Xavier Dolan: "La mia vita con John F. Donovan" (2018). Più gioia che cruccio per il sottoscritto, non comprendo appieno le critiche mosse al trentenne regista canadese per questa pellicola che, per contenuti e forme, è una sorta di suo manifesto. Cinema pop ricercato, veste patinata per assordanti crescendo emotivi: anche stavolta fedele alla sua poetica. Prova di grande efficacia, con attori pronti a questa logorante spedizione nell'intimo dei loro personaggi.

United States of Reality

Innanzitutto scusa Cinerofum. Giugno vergognoso, cercheremo di rialzare la testa, ché il cinema ha pazienza, ma non celluloide infinita. Debbo ancora parlare di un documentario visto, in due serate da due ore, con Elena in sala Valéry: "Quando si ruppero gli argini" (s.t. "Requiem in quattro atti"), scritto e diretto da Spike Lee nel 2006, un anno dopo che l'uragano Katrina travolse gli Stati Uniti affacciati sul Golfo del Messico, è un grido di rabbia la cui eco non dovrebbe esaurirsi.

Mica facile

Una ventina di giorni fa, altra dumenega scombinata. Di ritorno da Città di Castello (auguri Rouch e Giulia!), Elena prova a raddrizzarla con un cinema. Alla lunga ha capito che un film può risolvere tutto. Non solo, ha pure capito dove rivolgersi. La seguo fiducioso, quasi più di lei, verso la minuscola "Film club", dove una pellicola svizzera annuncia adolescenti in crisi. "Blue my mind", scritta e diretta nel 2017 da Lisa Brühlmann, zurighese classe 1981, è anche qualcosa di più. Storia originale e coraggiosa, convoca tutto il potenziale del surreale per rappresentare l'intrinseca inadeguatezza ed il senso d'orrore che accompagna la pubertà.