Fine luglio di commedia italiana. Mezz'estate da "100 da salvare". Un altro milanese, questa volta classe 1922, sondò con acume e delicatezza gli intimi gorghi ed abissi degli italiani del post boom, disillusi, frustrati, tenaci come ogni uomo. "Pane e cioccolata" (1974), quinto film di Franco Brusati, scomparso nel 1993, narra d'un italiano emigrato in Svizzera. Per lavoro, e qualcos'altro. Non v'è altra strada se non stai al gioco (e non sei giocatore di classe).
Visto in Sala Valéry in omaggio ai ragazzi del Laboratorio Bellamy, che propongono cinema nei caruggi di Zena.
Protagonista nella storia Nino Manfredi, il film gli è cucito addosso. E non che non pesi nulla. La pellicola scorre con andamento drammatico perfetto, soprattutto grazie a lui, ché alcuni momenti di bassa pure lui può farci poco (esemplare che la scena del gol sia la più cliccata). Contribuì altresì alla sceneggiatura, ne sorse un qui pro (pure chi racconta d'una storia di sacrificio ed orgoglio ferito, s'azzanna per mezz'osso, quant'è dura l'avventura).
Quindi grande Nino, dolce disperato nostrano, meschino e fiero. Ti muovi sul palco, al culmine della tua curva cinematografica, tra colori caldi e mezzi coni d'ombra (fotografia del toscano Luciano Tovoli), dove i moti del cuore fanno balzi che son cupi. Anna Karina è la dirimpettaia dei sogni e la sua figura sta esattamente sul limitar della luce. Scrittura di dettagli, pregni di significati (il bambino che serve all'adulto il gotto consolatore, una mano destra su di una spalla sinistra). Crescendo d'alienazione. Fino all'ormai consueta allucinazione, qui avicola, potentissima, così frequente nelle celluloidi del tempo (le frontiere passate non mettono al riparo). Per non parlare della paradisiaca apparizione dei biondi elvetici. Seconda parte più letteraria, quindi, rispetto ad una prima più caciarona, sino al finale con punte d'amaro 100%. Nino irrequieto e smarrito attraversa avanti indré. A sto mondo meglio il tunnel. Stop.
(depa)
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