Peggio per chi ha aspettato a vederlo, guardingo verso un film guerrafondato di Billy Wilder. Ché, per me, per scrittura e messa in scena, e interpretazioni, anche "Stalag 17", del 1953, appartiene a quella larga e compatta schiera composta dai suoi capolavori.
Con William Holden, Don Taylor e Otto Preminger. "Tra tanti film di guerra, pochi sui prigionieri". Al di là dell'esattezza, l'intento del regista di squarciare la cortina, umanizzando i prigionieri, disumanizzando i meccanismi ("L'inferno dei vivi"). Campo di detenzione nazista, con qualche licenza alla distrazione. Senza straparlare. Ogni materia maneggiasse l'ironico e acuto regista polacco, diventava preziosa. "Statuetta dorata" per qualcuno (grande Willy). Ritmo che non cede, battute che non rilassano le corde. Una cerchia di attori in grado di portare un mondo dentro a una barrack militare. Sapere è potere, al punto da rischiare tutto per tutto. Dal fronte a ben oltre.
La scrittura di Wilder, e collaboratori, ha prestanza, spalle larghe e coscienti. Rari da non ricordarli gli scivoloni dell'autore affrontando a muso duro temi spinosi. I comportamenti insegnati, imparati, subiti. Nella detenzione, un mondo dove tutto è acuto e amplificato. Non senza quell'ironia che, proprio nei campi, permise a qualcuno di resistere. Tocco unico, rude tenerezza anche nella splendida messa in scena. Piccoli uomini, continuate a sparare.
(depa)
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