Kaplanoğlu finito. Perlomeno, la trilogia di Yusuf, poi si vedrà. L'ultimo sguardo autobiografico, sempre a ritroso, sempre immobile, di Semih Kaplanoğlu porta all'infantile nettare d'alveare, "Miele" (t.o. "Bal", 2010). Il calore del focolare vince anche l'Orso d'Oro, sin quando la brace si spegne. E tocca andare...
Un bosco, un uomo, un mulo. 3 fisso. Artifizi temporali, ché l'Infanzia non ha generazioni. C'è già un piccolo Yusuf che sogna le stelle. Il padre, creatura della foresta, è la pacifica fonte d'ispirazione (non certo la scuola). Sorgente che, come sappiamo, darà luogo ad una mancanza. Impara la lezione, Kaplanoğlu, e va al sodo, evitando lattici acidi. Echi lontani, silenzi prossimi. La fotografia del regista, ineccepibile per quanto se ne. Persone legate strettamente alla terra. Vecchi mestieri si spiegano. Una pellicola sussurrata ("sussurratore furtivo"), dove tutto è servito: uova per la forza, latte per la crescita. Coi tempi autoriali, autoctoni, del regista smirniota, ancora una volta privi d'exploit di sorta (il fugace raduno gitano o la bella chiusura, terra alla terra, sarebbero candidati). Ronzii. Il miele può essere amarissimo.
Il migliore dei tre momenti, l'Orso potrebbe abbracciare la trilogia completa. D'altronde, rileva con acume Zappoli, con una giuria talmente "herzoghiana", partiva come le trenette liguri.
(depa)
"Il coraggio non è calciare un rigore al decimo minuto, ma restare con tua moglie anche quando sei cornuto. Uomo di merda.". -è passato alle bave-
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