Col secondo capitolo della "Trilogia di Yusuf", osservata e ciucciata da ben quattro fanatici della "Settima", appollaiati nella "Valéry No Green Pass", pare che Semih Kaplanoğlu abbia smarrito il delicato equilibrio della prima puntata. "Latte" (t.o. "Sut"), del 2008, affonda nell'autocompiacimento. Pretenziosità stroppiata che scalfisce finanche quella che è, secondo me, la robusta estetica del regista di Smirne.
L'aspirante poeta Yusuf, perso dietro a nuvole ed insetti, incapace d'approcci, lento quanto un Quaresma, tanto bellino, senza speranze. Presunto vezzo del regista, si salta indietro all'adolescenza fra sogni, amori (gelosie, edipiche) e pagnotte quotidiane. Si spalanca la fabbrica. E' la fine.
L'affascinante profondità di campo, già vista tra le uova primordiali, lo spazio non è un apostrofo. Passaggi memorabili che suggeriscono una scrittura più ricercata dell'apparenza (bus, s'incammina, a nord come-sempre, ora vi beccate tutto il tragitto, tac, strappo in automobile). Nella silenziosa e paziente "Valéry", l'insofferenza verso un cinema ambizioso quanto vuoto, di quel vuoto che i grandi maestri, tra cui nostri conterranei, seppero riempire d'esorbitante e annichilente nulla. Incomunicabilità turca, che si paga.
Memorie sbrindellate, Mino parla della madre abbozzata, qualcun altro parla di evidenti forzature (vedi finale, almeno chiudilo nell'abbaglio!). Intellettualismi cinematografici che, bene-male, hanno raccolto fedeli nella futura director art dell'Est europeo. Il fascino di un tempo ricercato, senza fretta, ma neanche ritmo, né scopo. Nouvelle Vacua.
(depa)
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