Ieri e ieri l'altro. Sì perché certi film possono e debbono essere rivisti. In sala Valèry, quasi per caso (proposta di LA7 e programmazione televisiva dal "Circolino" di Viale Monza: regia e cast immancabili), è tornato a farsi vedere Arthur Penn (1922-2010). Nella sua stagione dorata, il regista di Filadelfia realizzò un film di rara potenza. "La caccia" (t.o. "The chase"), del 1966, è un agghiacciante affresco della società texana (bianca) dell'epoca, e non. Esercizio di sintesi esemplare, senza sconti. Robusto come Marlon Brando. Bello come Jane Fonda.
Titoli di testa già braccati, negli anni loro, con Robert Redford trentenne sbarbatello, sempliciotto già inguaiato (""Come mai sei cornuto?" chiede al primo bovino che incontra). Ma la sua fuga, quasi in tempo reale, sarà sfondo latitante. La vera protagonista della pellicola, oltre alla mole del suddetto monster cinematografico statunitense, è la società bianca del Sud degli Stati Uniti. Col suo chiacchiericcio ubriaco, dalle conclusioni e dalle pistole facili. Il primissimo piano non è solo per alcol e sesso che permeano sta squallida comunità. Fossero solo quelli. Lo schermo è intriso della meschinità di questa, della sua ipocrisia, della sua dipendenza dalla delazione, del suo razzismo, fanatismo. Insomma, il branco sociale tra i minimi storici nel Texas della metà del XX° secolo (minimo che perdura). Rivedendolo, è uno splendido linciaggio da tutto in una notte di rara concisione, che impressiona per il risultato armonico, credibile, raggiunto da quest'apparentemente rischiosa sonata per, gravissimi, stereotipi. In poche sequenze è compresso il lato peggiore dei personaggi. Un'atmosfera esaltata di estrema potenza (la madre sconfitta dal senso di colpa, il distinto e spione faccendiere di piazza, la vecchia invasata di Bibbia).
Intreccio di scambi, di parole (vuote e non), di sentimenti (idem). "Bubber" Redford è scappato. Via il papillon, sceriffo! Ché le buone maniere non sono di questa "contea di matti, matti da legare".
Non c'è bisogno di averli visti tutti: certe inquadrature, fuori asse, oblique, inclinate; certi volti, stravolti, persi; certa fotografia (Joseph LaShelle e Robert Surtees, in carriera 4 Oscar in 2); certi momenti gridati suggeriscono subito Penn. Ciò vuol pur dire "autore". Brando, solo lui, torna indietro e te lo ripete una seconda volta, chiaro?! Fonda, solo lei, abbracciava sigaretta in mano (stupendo il bacio mancato di Bubber). Tanti piccoli nonuomini, tante belle donne, il quadro civile è tremendo. Contrappunto generale di grande effetto, tra goliardia e violenza, tra festa e tragedia. Fuoco e fiamme, balli e bottiglie. La signora Reeves, coi suoi occhi sbomballati, fuori di sé alla stazione di polizia, colla folla incombente attorno, oltre l'irrazionale, verso la follia. Lo sceriffo Calder, crucciato vero, non gambizza i burattini e tutti ne usciranno sconfitti. Il suo pestaggio rimane nella storia del cinema. Vien da alzarsi. "Chiamate qualcuno! Qualcuno venga qui!" urla sua moglie disperata al pueblo in rivolta ("Dottore chiami un dottore!"). "Mettiti il cappello!" ordina al marito massacrato: l'autorità chiamata a rapporto, in questo capolavoro sulla e come la violenza: più la guardi e più ti piace. Escalation di morte, apocalisse di stupidità, con superbo accompagnamento musicale* e scenografia da 10.
(depa)
*il britannico John Barry, 1933, 2011, 5 Oscar in carriera, primo marito di Jane Birkin (gulp)
Nessun commento:
Posta un commento