Uhrodia

Alla fine Simone ce l'ha fatta (cioè, noi). "Lawrence d'Arabia", "il film più bello della storia", del 1962, ha solcato la desertica, gelida nottegiorno, sala Valéry. Colossal miliare, insegue l'ingenua complessità del protagonista, personaggio tragico (e comico) uscito dai (e rimasto nei) romanzi. Lawrence, "metà beduino, metà dio", permise a David Lean di sfoderare il suo cesellato stile e di far mambassa d'Oscar (sette). Splendido colonialismo, coi selvaggi che non vogliono imparare.
Nel blue-ray ricevuto, quattro minuti di buio sulle ormai mitiche note di Maurice Jarre, già un assalto alle oasi. "Technicolor, in Panavision 70", 1935. Povero Lawrence, sorriso in faccia, uno schianto già scritto. "Campagna in Medio Oriente", "un clown per alcuni", Lawrence, visionario dei "giardini perduti di Cordoba". Sotto "l'incudine del Sole", tra cammelli al trotto e galoppo; al passo, se cielo e sabbia si fondono. Spazi maestosi, prospettive ammalianti, diagonali suggestive. "Orens", per gli amici (quanti poi?), non beve.
Epico secco, retorico quanto un "niente è scritto". Orens, ora giulivo, ora moribondo, ora euforico, ora distrutto, incarna insoddisfazione civile, schizofrenia occidentale. Candidamente fiducioso, nonostante gli scambi di cortesie tra tribù. Basta vederlo cavalcare, perché non sia un beduino (dettagli). Aura femminea (unici volti di donna, delle indigene nelle tende), che sottende l'irrisolto della controversa figura. Orens Gesù Cristo, "perché vai a piedi?!". Carrellate in campo aperto già intraviste in Lean (le sue Ferrovie). "Sto bene". Grande Peter O'Toole, la superbia è l'albero maestro che supera una duna (non la sempreverde e piatta merce). Interpretazione intensa, concentrata nell'imbarazzo rabbioso con cui riceve lodi e onori militari. Nella luce dei suoi occhi, ingenuo stupore, la dinamo del racconto.
Potrebbe andare avanti all'infinito, Lawrence; come Lean e la sua troupe, una tribù da trascinare, una città da conquistare.
Idealista-egotista, Lawrence, la parabola di liberazione universale implode nell'incarcerazione in sé. "Sì, certo che ripartirò". Tipo interessante, questo ventisettenne sognatore e tonto. Riscoprirà la voglia di "comune umanità", quando sarà troppo tardi, perduta la propria.
Seconda parte con una marcia in meno, si perde in avventura, esotismo, ritmo. Come interessasse il naufragio dell'anima, più che il ritmo campale. Anche più verbosa. "Orens! Orens!". Nella "Valéry", siamo giunti un po' provati al "No prisoners!". Meschino Orens, a furia d'odio, tra scene e dissolvenze spettacolari, incappa nel paternalismo coloniale ("Macchine e generatori"). Finito solo come un degno eroe, shakespeariano, la pellicola lo abbraccia, scivolando nel suo abisso. Desolato Lawrence, se ne va.
Dopotutto, un deficiente. Si fida di sceicchi e generali, fa saltare in aria treni poi ferma gli assalti, dà la carica quindi vaga di bianco vestito. Mica normale, Lawrence.
Nato più o meno giusto, finì come L'uomo che volle farsi Cristo. [Awda-Anthony Quinn la sapeva lunga sui giornalisti] "Ci vuole una pallottola d'oro". Domande e risposte si ammucchiano. "Chi sei tu per dire cos'è possibile?!". Il delirio è giunto: "Pensi che IO sia uno qualunque?!". Annunciazione (a Fernando Sancho poi!), quindi prigionia (Gomorra e sorella). Punto chiave: s'è buttato nel precipizio da sé.
Film letterario per un personaggio uguale, senza nascondere razzismi che non devono essere nascosti (è uscito a meno di trent'anni dalla sua morte). Orens "a tappe brevi", muore. Traversata nel deserto della psyche, turbolenta dentro, pronta a confondere, lesta a obliare; infine un trattato sul leaderismo ("Non verranno per soldi, verranno per me!"). Alì-Omar Sharif è la sua coscienza, la stessa d'una nazione. Nata sporca di sangue.
(depa)

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