Tra "gli acclamati dalla critica" proposti da "Netflix" c'era un film taiwanese. Non ho retto. Ho aperto la "Valéry" e, dopo Elena, ho fatto accomodare Ho Wi Ding, che poi ho scoperto essere malese. L'autore, classe 1971, s'è presentato con "Cities of last things". Pellicola del 2018 è un racconto a ritroso: da una rabbia inossidabile, ai suoi ingredienti. Ambizioso, ben fatto, qualcosa di infantile.
Tipo i tre celebri fantasmi moderni, figli di Cronos, ma si parte dal Futuro. "Pa', abbiamo già i chip, a cosa servono le voglie?". In pieno transumanesimo, sono sguardi paurosi quelli che il regista asiatico ci propone. Un pazzo si aggira tra i pazzi. Il tempo stringe il trapasso da umani a disumani sta sfuggendo al controllo. Per fortuna si torna indietro, a tempi più noti. Dove, almeno, sai benissimo quanto fidarti della polizia. Un altro salto indré e si apprezza meglio la sapiente orchestrazione del regista. Il rallentamento di ritmo, col "passare" del tempo, nella dimensione della memoria. Grazie a questa attenzione (il caro e vecchio autobus), si giunge alla seconda parte più intimista (la signora Wang in galera). Tra repressione e abusi di potere, può nascere un fiore internazionale. Meglio premer forward e vedere che sarà.
Va detto che ci ho messo un po' a orientarmi Non come Elena...
(depa)
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