Come il ‘Rofum sa, sono sempre stato un estimatore di Gabriele Salvatores, stima nata per i suoi mitici film degli anni ’90 e sempre rimasta viva negli anni e questo suo ultimo film non ha deluso le mie aspettative, anzi. Definirei questo “Tutto il mio folle amore” (2019) un’opera matura del regista che dipinge magnificamente l’incredibile storia di Vincent e suo padre Willy, liberamente ispirata dalla storia vera di Andrea e il padre Franco Antonello, raccontata nel romanzo “Se ti abbraccio non aver paura” di Fulvio Ervas.
Sarà pur vero che non ci sono “conferme scientifiche” su quello che il film descrive, come il regista si premura a precisare nei titoli di testa, ma l’antipsichiatria ha una bella lista di illustri studiosi e umili estimatori, tra cui il sottoscritto. Si parte dal presupposto che la “normalità” è un concetto decisamente relativo che la società riconosce in determinati pensieri e azioni solo perché più comuni. Si arriva poi a sostenere che persone con deficenze mentali e deviazioni emozionali abbiano bisogno di essere trattate e considerate come chiunque o non comunque perennemente compatite e sostenute; sono loro che devono adattarsi all’ambiente che li circonda e non viceversa (come tutti), altrimenti si rischia di frustrare la loro possibilità d’integrazione con il mondo invece di stimolarla.
Questo è purtroppo quello che involontariamente, con tutto il loro folle amore, fanno Elena e suo marito Mario, madre naturale e padre adottivo di Vincent, un ragazzo di 16 anni malato di autismo. Il padre biologico di Vincent invece non lo fa, semplicemente perché non è in grado. Willy infatti è un’uomo che vive la vita al di fuori di ogni schema sociale, un musicista squattrinato che vive alla giornata e che è sparito quando 16 anni prima la sua fidanzata gli aveva comunicato che sarebbe diventato padre. Preso poi forse da una botta alcolica più forte del solito, dopo tutti quegli anni di totale assenza, si introduce in casa della madre di suo figlio il quale, nel vederlo, ne rimane affascinato e scappa con lui a sua insaputa. All’inizio Willy non è convinto di portarlo con se, ma poi si rende conto che assieme stanno bene e in particolare Vincent è molto più “rilassato”. Fuori da tutti “i castelli di carta” costruiti dalla sua famiglia, libero da ogni schema, come lo è suo padre, Vincent può essere normale come vuole lui! La base della riuscita convivenza trai due è comunque sempre il primo obbiettivo d’indagine del film: l’amore.
A mio parere non manca veramente niente a questa pellicola. Ci sta anche un momento di grande suspence verso il finale che porta a delle giuste riflessioni in senso opposto a quelle fatte fino a quel momento, riflessioni con le quali anche il più convinto degli antipsichiatri deve fare i conti.
Ottime le interpretazioni degli attori principali, Claudio Santamaria nei panni di Willy, l’esordiente Giulio Pranno nei panni di Vincent e l’affezionatissimo del regista campano, Diego Abatantuono nei panni del padre adottivo Mario, così come Valeria Golino nei panni di Elena, la madre di Vincent.
A mio parere, il miglior film di Salvatores degli ultimi dieci anni, se non venti.
(Ste Bubu)
Ma sì, invero ha convinto anche noi nella sala Valèry titubante, forse proprio a causa di quegli "ultimi dieci anni, se non venti".
RispondiEliminaE' un filmetto privo di colate gravi (la materia è greve), con le ottime interpretazioni di cui hai detto, e una scrittura attenta. Alcune battute del sedicenne hanno l'intuito e la dolcezza unici di questi ragazzi assediati ("fuoco!").
In dubbio tra la pellicola e la tua recensione. Bless, Bubu!