Tonfo bovino

Soddisfatti del recente, per noi, crescendo di Gus Van Sant, Elena ed io l'abbiamo reinvitato nella Valéry. Suo "quarto lungometraggio", del 1993, è l'ultimo appuntamento. Non ci rivedremo per un po'. Poco male, che quel maledetto (già allora, da un dodicenne!) "Cowgirl" non lascia alcuna voglia di ripetere. 

Presentato da "Fine Line Features" e "basato sul romanzo cult degli anni Settanta", del culto ha ben poca aura. Dopo la prima immagine, la prima voce, sono attraversato dallo stesso brivido di ventisei anni fa. "Il brutto può essere bellissimo, mai il grazioso...mai!" (Gauguin). Sissy e il "Townhall". Per "Even cowgirl get the blues", il regista statunitense classe 1952 diede tutto: regia, sceneggiatura, montaggio, produzione. La musica la prende dovunque; colonna sonora confusa, che immersa nel vuoto taglio fumettistico, coglie ben poco. Ironia e molta tristezza. Una sorta di "Lo spirito dell'autostoppista". Cameo di William Burroughs, smarrito non per colpa sua. "Eterna e infausta". "Deformata dalla società". Affronto al machismo da ranch, le nostre pisellone del "Rubber Rose". Pure il regista cantante in red di Serie B. Manco il maestro Myaghi di Chinatown può sollevare la situazione. I realisti magici si danno fuoco.
Francamente, lo trovo un film imperdonabile. Men che meno un "sogno utopistico". Sequenze tapullo più che visionarie, velleitarie più che immaginifiche, sterili più che estatiche. Si combatte la società patriarcale, quella che, appunto, deforma le esistenze, con la gru americana. Un ballo texano, un toast bucato. Femminismo per tutti, quindi nessuno. Affresco ambizioso quanto confuso, coi personaggi abbozzati. Peccatissimo che questo richiamo alla libera natura sfiori il senso solo sul finire, nell'avulsa sparatoria.
Giusta lapide sulla precoce quanto impotente filmografia di questo pretenzioso regista.
(depa)

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