Se Elena ed io abbiamo atteso tanto un motivo c'era (oltre al boicottaggio del vorace "Corallo", che se l'è tenuto in pancia per mesi). La ragione è che da un film hollywoodiano diretto dal primo scemo più scemo che passa, per di più trionfatore agli Oscar, non ci si può aspettare che giunga nulla più che da "Green book" (2018): distillato di retorica a 99°, brucia occhi e spirito, condannandoti ad una striscia di stereotipi, che poi è la stessa offerta da qualunque mass-media. Diretto da Peter Farrelly. Amen.
Sempre deliri laggiù
Lunedì scorso mi son diretto verso un palestinese. Un film, intendo. Da quella terra martoriata giungono quasi sempre gemme estratte dal dolore o, come in questo caso, da un'ironia che possa anestetizzare, senza ottenebrare l'intelletto (anzi). "Tutti pazzi a Tel Aviv" (t.o. "Tel Aviv on fire"), diretto nel 2018 dal regista palestinese classe 1975, Sameh Zoabi, sceglie quest'ultima strada, danzandovi senza inciampi, ribadendo financo la distanza abissale che può separa gli individui dai poteri (quando non estraggono le armi, o i portafogli). Il quadro non è edificante, ma è doveroso sostarvi dinanzi un attimo in più.
Aziende Supporto Locale
Sempre la scorsa settimana, mi sono diretto verso il "City" perché ormai c'è fiducia. Per le proposte del circuito cineclub genovese e per un cinema, quello francese, spesso in grado di sondare il sociale meglio...del nostro. Fiducia tradita, poiché "Le invisibili", diretto nel 2018 dal regista francese, classe 1983, Louis-Julien Petit, mi ha irritato dall'inizio alla fine, vuoi per la recitazione approssimativa (con buona pace del non-professionismo), vuoi per una retorica assistenzialista criminale, qui come altrove spacciata per solidarietà.
NO BORDERS NO NATIONS...
Settimana scorsa, chi sa quando, ero andato a vedere un film cipriota del 2018. Un po' perché inseguo film da paesi improbabili (cinematograficamente), un po' perché il nullaosta di Marigrade rende tutto più sereno. "Torna a casa Jimi!" (t.o. "Smuggling Hendrix"), scritto e diretto da Marios Piperides, nicosiano classe 75, che ha tradotto da lettera in celluloide un suo omonimo romanzo, ha il dono delle ottime commedie, quella leggerezza che permette di sopportare lo (e riflettere sullo) sfacelo sociale che, in primissimo piano, fa da scenografia al racconto.
Memoria di lotta
Scriviamo tre lettere sul film visto ieri sera, da Elena e me, nella minuscola sala Film Club del "Sivori". La pellicola, invero assai poco celluloide, trattandosi di un misto animazione-documentario, ronzava da un po' nelle sale palpabili. E' stato un bene recuperarla perché la storia che vi si narra è una di quelle da non dimenticare. Ryszard Kapuściński (1932-2007), giornalista scrittore polacco, fu reporter nella guerra civile angolana (1975), si spinse agli estremi per la verità, gesto sempre più raro. E ne trasse un racconto vero ed efficace. Quindi ai due registi, Damian Nenow, polacco classe 83 (formatosi a Lodz) all'animazione, lo spagnolo classe 1974 Raúl de la Fuente al "reale" (ed al montaggio), il merito di aver seguito le orme del tenace e coraggioso protagonista, realizzando questa trasposizione, nel riportare alla memoria volti e fatti, esempi di lotta per ideali di giustizia e di sfruttamento senza vergogna. Non bastasse, "Ancora un giorno" (2018) è un film emozionante.
La realtà che ci circonda
Lo scorso mese, nelle sale, è transitato uno dei titoli che impreziosisce da solo una stagione. A tal proposito, è giusto scrivere che qualcosa pare muoversi, i film stranieri di buona qualità distribuiti anche da noi si susseguono. In questo caso, un film libanese di estrema intensità: "Cafarnao" (sottotitolo italiano "Caso e miracoli"), scritto e diretto nel 2018 da Nadine Labaki, attrice qui al 3° cimento registico. Col gusto neorealistico per le innocenze tradite di bambini dimenticati, un logorante percorso nel nostro infernale pianeta.
"Peggio dei cinesi"
Urka che scottatura. Uno dei film più brutti che ricordi mi è giunto in mano dalla cassetta magica di Salita di Balaclava, solitamente così preziosa. Il misterioso proponente, forse, questa volta non stava suggerendo bensì gettando...perché cos'altro si può fare con "Beautiful country"? Pellicola del 2004, diretta dal norvegese classe 1955 Hans Petter Moland e scritta da tal Sabina Murray che vien dalla Pennsylvania, pare lì a ricordare come non fare un film, o meglio, come non sia uno scherzo fare un film. Rumenta.
Deliri in terra santa
La settimana scorsa, tra festività sacre e pagane, ho trascinato Elena per un'ala sino all'"Ariston". In programmazione c'era "Sarah e Saleem", film del 2018 diretto dal trentacinquenne palestinese, ma formato professionalmente a San Francisco, Muayad Alayan e scritto dal fratello. Sottotitolo, "il sesso al tempo di Israele", offre un nuovo spaccato dell'abominevole situazione sociale cui si è giunti a Gerusalemme e dintorni (ci si abitua a tutto, se porta profitto). Fake-esistenze in una meta-vita che ormai puzza di plexiglass. E polvere da sparo.
Muri inattesi
Toh chi si vede. Dopo poco più di un mese, Claude Sautet di nuovo in sala Valèry. Sarà il nome della sala, o questo recente ribollire giallo parigino, o chissà quanto invece sarà valsa la bellezza incantatrice della protagonista?, fatto è che anche sta volta il regista parigino, che fu specialista dei drammi del cuore, ha fatto centro. "Un cuore in inverno", del 1992, ha dalla sua un andatura singolarmente seducente, pur per raccontare d'una sbandata multipla, di quelle che si ritrovano senza conducente.
Tarlo horror-ossessivo
Qualche sera fa in sala Valéry è tornato Roger Corman. Il regista di Detroit, custode dei temi del brivido sublimati nell'opera di Edgar Allan Poe, nel 1961 si cimentò, cinematograficamente e liberamente, s'intende, con uno dei suoi racconti più celebri: "Il pozzo e il pendolo" mostra, oltre al feticcio Vincent Price ancora una volta immerso nel suo espressionismo compulsivo, la consueta capacità di maneggiare la materia dell'orrore filmico, ricreando atmosfere e momenti che non risentono del tempo, né della tecnologia, trascorsi.
Greed capitale
Lunedì scorso si era ancora in derby vincente. Forse è stato sulle ali di tale bestia entusiasmante che pure il Benza si è accodato verso il "City". Nel piccolo "Due sale" di vico Carmagnola è in programma un film colombiano che attira l'occhio del cinefilo frustrato. Buon istinto, poiché "Oro verde" (sottotitolo italiano "C'era una volta in Colombia", t.o. "Pájaros de verano") è un ottimo epico sui disastri sociali, inter-personali, che hanno sempre attraversato le nostre comunità; quelle apparentemente intrecciate colle "sagge" (ipocrite) tradizioni tramandate, non meno di quelle più smaccatamente imbevute d'avidità e sfruttamento. Cambia poco, quando la molla comune è il potere. Regia di Ciro Guerra e Cristina Gallego.
V'ammazzo tut..ti amo!
In questi giorni nelle sale cinematografiche è stato riesumato (prima ristrutturato), ultimo di illustri ed acclamati "colleghi" più o meno obliati, un film messicano del 1946. Diretto da Emilio Fernández (1904-1986), giovane rivoluzionario poi scappato, poi tornato regista, quindi "riscappato" attore, "Enamorada" fa come il suo autore. Avanti e indré tra lampi di truce realismo e aiuole di melò moschicida, definitivamente sgorgante nella commedia rosa più retorica e vanesia: sin dove guardano gli occhi spiritati d'una María Félix da copertina, più che locandina.
In linea col padrone
La settimana scorsa è stata la volta di una pellicola danese diretta da uno sceneggiatore svedese. Sembra una barzelletta, invece è "Il colpevole" di Gustav Möller. La sciocchezza appena scritta può forse condurre, però, aiutare a comprendere l'originale punto di forza di questo film: una scrittura esatta, consapevole del proprio potenziale e della posizione di vantaggio sul pubblico. Il risultato è un thriller psicologico on-line e real-time, cioè in diretta telefonica. Nessun intervento, anche se "pronto", bensì la lapalissiana idiozia degli agenti di polizia.
Le cric c'est chic
Poteva esimersi il Cinerofum dal correre a vedere l'ultimo, delicatissimo (e si parla di cric in da fazz') scritto e diretto da Lars von Trier? No. Avrebbe potuto mai perdersi la poetica messa in scena del regista danese (roba di cadaveri in via di putrefazione)? Tszu, tszu. Come si sarebbe sentito il 'Rofum, privato dei profondi spunti criminologici (l'estetica del massacro) offerti da questo affascinante delirio d'onniviolenza? Come il protagonista, ossessivamente insoddisfatto. Distante migliaia di miglia dal regime dogmatico del '995, Trier prosegue, con acume ed ironia, lungo il percorso delle patologie mentali, qui omicida. "La casa di Jack" (2018, t.o. "The House That Jack Built") dev'essere visto.
Male Show
Saltato il sabato dal cinema verdeoro, compensato con una trasferta spumeggiante in quel di Reggio, domenica sera corro a recuperare il quarto appuntamento della rassegna allestita dai ragazzi dei "Cappuccini". "Bingo: il re delle mattine", film del 2017 che rappresenta il debutto alla regia del 44enne Daniel Rezende, più noto come montatore, ha un appeal indiscutibile (la Warner Br. non se l'è fatto scappare). Il tòpos del pagliaccio triste, rivisitato in chiave sballata, offre l'ennesima prova di quanto sia distorta, disumana la società dello spettacolo, dentro cui ormai tutti ci aggiriamo incoscienti. E (in) felici.
Piccoli grandi valori
Ai "Cappuccini" è iniziata ieri la rassegna "Agenda Brasil", qui alla seconda edizione, dedicata al cinema brasiliano. Ad aprire la samba, "La collezione invisibile", del 2012, di Bernard Attal, francese classe 1965, trasferitosi da una quindicina d'anni in Brasile. Patrocinata da una sfilza di istituzioni, aziende ed associazioni dedite al denaro, quindi allo sfruttamento, questa simpatica e graziosa pellicola prova a beffarci con buone parole sui valori autentici.
Soap Africa
Tremendo quando ho deciso di chiacchierare col povero Bernardo Bertolucci. Povero perché dipartito, non certo per quanto raccolto, prima e dopo il percorso, da critica e pubblico. "L'assedio", del 1998, acclamato come "gioiello", sul 'Rofum viene stroncato non meno del precedente buddista. Tanto lavoro alla regia, per un'opera finalmente grezza, ammorbata da un'atmosfera leggera di certo non voluta.
Piccole reazioni distorte
Nel mirino da una settimana, ieri sera è stato il turno di un film marocchino, che rappresenta l'esordio alla regia del suo autore. Autrice: Meryem Benm'Barek-Aloïsi, trentacinquenne di Rabat, con "Sofia" s'è aggiudicata il premio come miglior sceneggiatura all'ultimo festival di Cannes (Sez. "Un certo riguardo"). Gravidanza ai nostri tempi in Marocco, un intrico di vetuste leggi ed imposizioni religiose, si sa, non resta che raccontare come questa condizione già malata possa essere aggirata e peggiorata da ulteriori deformazioni dell'individuo, complice una società incapace di non prevaricare.
Calcoli e soluzioni
Manco il tempo di...e ancora sala Valéry. Domenica scorsa s'è fatta ospitale ed oscurata, contro quel solaccio pomeridiano là fuori, pronta ad accogliere le due anime nei paraggi (Mino e me). Dopo proposte variegate, è un certo impegno cinematografico che ci prefiggiamo, quindi: esordio del regista partenopeo Mario Martone, avvenuto nel 1992, "Morte di un matematico napoletano" trasuda l'attenta sensibilità nella realizzazione, calandoci nel lento disfacimento di una mente profonda e ferita, sino alla sua fatale consunzione.
Maturi infanti
"Valéry (la sala), se ci sei, batti un colpo!" La nostra non si fa pregare e, sabato in pieno pranzo, si mette in moto da sé, proseguendo lungo il boulevard Claude Sautet. Nel 1971 il regista francese specializzato in turbe rosa realizzò "Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre" (non è uno scherzo, t.o. "Vincent, François, Paul...et les autres"), un drammatico romantico delicato e profondo, dove mostri sacri dell'interpretazione cinematografica d'Oltralpe poterono spremervi tutto il proprio mestiere. Eterni giovincelli, i protagonisti si ritrovano a tirar le somme, tra rimpiante ed abbandonate, quasi convinti si sarebbe potuto fare meglio: ma la vita è così.
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