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Sempre la scorsa settimana, mi sono diretto verso il "City" perché ormai c'è fiducia. Per le proposte del circuito cineclub genovese e per un cinema, quello francese, spesso in grado di sondare il sociale meglio...del nostro. Fiducia tradita, poiché "Le invisibili", diretto nel 2018 dal regista francese, classe 1983, Louis-Julien Petit, mi ha irritato dall'inizio alla fine, vuoi per la recitazione approssimativa (con buona pace del non-professionismo), vuoi per una retorica assistenzialista criminale, qui come altrove spacciata per solidarietà.

Dopo un encomio al doppiaggio italiano, solo brutte cose. Se nel quadro della pellicola, è ben descritto il subdolo accanimento delle nostre società (in grado ad esempio di obbligare i poveri, per aver l'onore di poter essere inclusi tra quelli "nazionali", di porre barriere anti-poveri), tuttavia in primo piano si percepisce un certo scollegamento. La spina del pathos non fa contatto. La drammaticità è scomparsa presto, sotto i colpi di un volemose bene che, proprio come il piatto assistenzialismo, è mero palliativo per ego frustrati. Partono i bassi e non si capisce dove vadano. Da quando, e dove, l'iscrizione ad un'agenzia interinale rappresenterebbe un benché minimo successo, una dignitosa soluzione? Gli imprenditori gongolano. E Petit si mette alla loro testa, ripetendo, sotto le vesti di una disobbedienza civile cosciente, il vile ed opportunistico mantra del lavoro. Quando proprio l'emancipazione dal lavoro sarebbe l'unica via di libertà di queste donne gettate per la città dalla società capitalistica, cui poi chiedono spiccioli d'elemosina sorridente. Visioni pervase da idiota ottimismo democratico (le ragazze ritroveranno la propria stima grazie ad un...workshop).
Scrittura errata (la trasposizione degli studi precedenti di tal Claire Lajeunie è pertanto fallita, forse pure la comprensione?), pure lo sgombero con ruspe di una piccola baraccopoli, immagine così attuale e potente, non coinvolge. La critica si fa lagna istituzionale. L'unico gesto di rottura, infine, è quello di continuare ad aprire il centro in segreto. La spia luminosa rossa che segnala i momenti di bassa emotiva si accende ripetutamente: l'arbitraggio, il racconto di Angélique quindicenne, la lezione d'elettricismo, l'"ingresso" di Hélène alla seduta "psicoterapeutica", per giungere alla carrellata più abusata, allo stereotipo cui Petit proprio non è riuscito a sottrarsi, coi personaggi ripresi durante ridanciani colloqui conoscitivi. Tranquilli, nemmeno il classico videoclip della rivalsa è stato risparmiato (a mo' di Acchiappafantasmi, meraviglioso, quello).
La mancanza di idee, e serie, si tocca, palesata pure in sequenze che vorrebbero essere frizzantemente estemporanee, ma che risultano tali oltremisura, sino a non azzeccarci nulla col film.
Fortunatamente il cinema, soprattutto se sociale, non è una carrellata di casi umani. Anche perché in strada, allora, trovo di meglio.
Certamente la lezioncina che si debba imparare ad insistere, senza arrendersi, è apprezzabile.
In sostanza, si insegue la complessità delle scorie della società (del tipo: ognuno di noi ha qualche grattacapo), gratificando il borghese in sala con due ore di promesse e speranze democratiche già tradite: la chiave è prendere a calci in culo chi ti lascia 20€ per una povera che vorresti aiutare, altro che amarlo (ha chiamato Julien, l'amore paga!). Ma ciò, come spiegato sopra, il film non può proprio farlo, perso com'è nel regno delle fate sociali.
E la rabbia? E la poesia? E l'ironia? In pratica non ha funzionato nulla, il casting men che meno.
(depa)

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