Niente ravioli al vapore

Qualche settimana fa nelle sale comparve un film cinese del 2018, "I figli del fiume giallo". Dalla locandina ammiccante, coi colori e sguardi alla "Pulp", mi aspettavo il classico sulla Triade, ed invece sarà una panoramica sociale rosanera sulla Cina che è. Scritta e diretta da Jia Zhangke, l'ambiziosa pellicola, non esente da scuciture, mostra il coraggio dell'autore di sondare un cinema diverso: che pur nei canoni dei film di malavita, racconti una Cina più vera.

In avvio, la magnetica protagonista Zhao Qiao (in realtà Tao, moglie musa del regista cinese classe 1970), presentata con carrellata-passerella in primo piano tra fumo e spettacolo kitsch (per noi), ci presenta i suoi amici gangster. Oddio, un po' sgangherati (sfigati si direbbe), sorta di copia chollywood. Primo silente quesito in sala: ha senso sfidare gli Stellestrisce sul loro show-biz? La risposta prende fiato dall'ironia che si respira. Come altrimenti intendere la sequenza della pistola caduta sulla pista da ballo (yamme)? Per non parlare dei momenti canori ("In tutti gli anni sono andato avanti, ma ogni volta mi mancava qualcosa.../ Quante volte possiamo tornare assiemeee?!...").
Vero, la buona Zhao, degnerà di muoversi solo dopo che il suo amato ne ha prese per una buona scorta, per di più per sparare in aria (e finire pure in gattabuia per ciò)...altro che pulp. Sì, in alcuni momenti bassi annunziatori partono a sproposito. Ok, la pupa tradita ed abbandonata resterà lì a NON guardare negli occhi l'uomo che la sta abbandonando. Scelte così precise forniscono una chiave di lettura migliore di quest'opera. Non è la gangster story truce e credibile che interessa Zhangke.
A metà film, l'eleniano fumetto s'innalza sulla mia spalla (sinistra): "Non succede nulla" e, accompagnandosi alle tragiche impressioni post-visione del Mino, mi richiama alla concentrazione.
Mezzo gangsta, mi dico, per un film intimista, col "duro" quasi mai visto in azione (l'unica volta le prende), dalle immagini grigionere invase da cemento e asfalto dissestati, inzuccherate solo da altoparlanti bugiardi in tema di progresso e benessere in corso (o di uno spettacolo favolosamente mirabolante!). Altrove, inserti iperrealistici con pellicola dall'effetto più grezzo (il ballo popolare), danno il tocco in più.
Un quadro fosco dei personaggi, cinesi medi, quasi sempre spinti da istinti superficiali, se non meschini. Come tutti gli altri medi del pianeta; da una prospettiva particolare, però, quella del paese dove il capitalismo ha sia incontrato una delle resistenze ideologiche più forti, sia trovato la realizzazione più estrema. Perciò questo affresco, raro tra quelli giunti a noi, è ancor più raro per questa sua ottica. "E' un bene che vi spostino" recita il ricorrente ed alienante mantra degli individui dello Xinjiang, titubanti e vaganti, lontani dalla solida e sorridente tradizione. Comunità nate nelle campagne, ritrovatisi nei non-luoghi della nostra era. Così diveniamo sbagliati, incapaci di difendere un bacio da una polifonica.
"I figli del fiume giallo" ha la dolceamara approssimazione di una fugace pennellata. Dolceamara poiché, codardo, dico tutteniente. Approssimazione poiché questi nei, un po' come il volto della protagonista, donano alla pellicola un'estetica complessa ed originale. Non tutto oro. Dopo i bei momenti della girovaga liberata, spiace lo sfilacciamento che porta fastidiosi dubbi capitali: che si sia preso sul serio?
Una storia d'amor, anzi, di donna. L'ennesima, gettata al fiume.
(depa)

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