Reyhaneh Jabbari VIVE

In coda per un film. Uno sguardo al monitor della programmazione può condurre, nel giro di pochi gg, alla stessa fila, per altro film. In questo caso, il "Sivori" ci ha convinti con la consueta mini-rassegna "Mondovisioni - I documentari di Internazionale" (ed. 2022-23). "Seven winters in Tehran", della tedesca classe 1981 Steffi Niederzoll, è testimonianza di denuncia sulle condizioni in cui versano le donne iraniane. Quando Stato e Tradizioni stringono il patto di morte, per gli spiriti liberi non v'è salvezza, che non sia lotta.
Sala 2 del Sivori gremita, gente in piedi tra crediti formativi ed il "Montale" che aspetterà solo di uscire. La presentatrice annuncia che oltre sul "carcere", "si parla di rapporto tra Stato e Società e le donne". Mentre la giornalista iraniana in sala parla di 110 donne giustiziate in 7 mesi da genitori, parenti, compagni. Insomma, tragici ovunque i traguardi di Progresso e Civiltà. Peggiori in Iran, con la stretta mortale tra religione e legislazione.
Carcere maestro indesiderato: tossici e puttane si riveleranno gli unici capaci di solidarietà. L'infame Shamloo e la prigione di Evin. Sarbandi del cazzo. Servizi Segreti di sta minchia. Come nei nostri tribunali, si giunge a rimproverare alla vittima il "narcisismo che non permette di sopportare il desiderio dell'uomo" carnefice. Ultima tappa il carcere di Shahr-e Rey. "Ucciderla o liberarla, purché si torni a negoziare" (ministro iraniano). Con più pathos di un film vero, ché il potere conosce la forza mortifera di simboli e rappresentazioni. "Troncare i rapporti" con chi,  più o meno inconsapevolmente, perpetra i valori del patriarcato e del dominio è ormai un dovere di giustizia (proletaria). 
Non solo per l'indomita Reyhaneh Jabbari (1987-2014), che alla spaventosa repressione oppose strenua resitenza.
(depa)

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