Con Elena travolti dal cinema americano di fine XX° Secolo. Dall'anno 1985, dopo i grandi i piccoli, gli schermi sono stati ripetutamente coperti da "Il colore viola". Film drammatico senza pudore, che il patriarcato non ne ha, né lo merita. Anche in questo di Steven Spielberg, come nell'ultimo Scorsese, il razzismo viene dopo, innestato in valori di dominio e prevaricazione già ampiamente istituzionalizzati. L'emancipazione di ciascuno passa dalla propria lotta.
"Warner Bros." presenta in carattere purple questa cupa fiaba, colorata dalla vivida fotografia di Allen Daviau (1942-2020). Inizia come un "Disney", corse sui prati, rincorrendosi tra steli alti sino ai cappellini nastrati. Caro dio, incesto.
Il patriarcato, dal mefitico possesso, ha una storia lunga quanto la civiltà. Crescere figli tra le bastonate. Drammaticone [da censura la doppia lettura della lettera di Nettie], non avanza lungo il sottile (oppure troppo), Spielberg, che frattanto piazza i suoi personaggi esotici (la moglie del sindaco).
Questa è Miss Celie e la sua storia. Non può chiudersi con Cenerentola che riceve un castello, ma il ricongiungimento colla sorellina avverrà. Poi l'irruzione in chiesa, prima del finale strappalacrime degno di un pessimo "tratto dal romanzo". Beffa dannosa, con l'infamune che, in dirittura d'arrivo, si scrolla la polvere di dosso. That's Spielberg (finito a parlar di sé).
(depa)
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