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Non che si sia perso tempo, come potete, ma, ai primi di maggio, vi fu il Secondo Rientro nelle sale, che ha trovato Elena e me famelici nella Uno del Sivori. Si è partiti con due pacchi da cinefili, peggio per loro, ché "Minari", dello statunitense classe 1978  Lee Isaac Chung,  è una fuga impossibile, oggi come quarant'anni fa. Dalla città, da sfruttamento e alienazione, da se stessi. Con tocco che sconcerta, illusioni e speranze, sorrisi e dolori d'ogni capitalismo. Impeccabile.
I toni tenui dei maestri orientali, che permettono di scansare lo strappalacrime e, anzi, quelle lacrime ingrandirle al microscopio. Se reggono, e spesso è così, ne sbocciano pellicole dall'incisiva delicatezza. Wildness, una fisiologica voglia di vita altra. Giardino dell'eden coi suoi parassiti, tutto bio, la vita infestante prova a risorgere. [faccino tra pulcini (che bimbo!)] Essere scarti. TAC. Eccallà, la nonna. Precarietà, dagli anni '70 (Distratto, lo intuisco solo al colloquio per il mutuo) tutto peggiorato. Interrogativi, i soliti, sulle nostre responsabilità (fiducia nel sistema aziendale?). "Avere cervello". Nel mezzo, pungenti quanto eleganti spilli di commozione (agopuntura). [Zio fa: se qualcuno t'aiuta, sta' certo che è fulminato] I meravigliosi bambini catalizzano la scena senza rubarla ("brutta carogna!"). Ah: l'opportunismo dei nonni! L'autore taglia con maturità sull'orto e la natura rigeneratrice: aprono tubi di plastica gocciolanti e chiudono sacchi d'immondizia. Se non-conformisti sono loro! Ottimi dialoghi, essenziali e puntuali. Attimi morriconiani, con una toccante corsa di bimbo dietro alla nonna che, in tempi di lockdown, state-a-casa e distanziamenti asociali, diventa manifesto dello stringersi ("lui non è neanche un vero uomo!").
A ripensarci, è proprio il meraviglioso "niente-di-nuovo" che lascia senza fiato, con le accuse di retorica frantumate dall'indice impietoso del Tempo. La cancrena degli affetti lascia solo morti frutti.
(depa)

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