Gilberto Govi (1885-1966), fondatore e maggior interprete di
sempre del teatro dialettale genovese e considerato uno dei simboli della città
della Lanterna, nel periodo bellico e post bellico si cimentò come attore cinematografico
in quattro film dall'esito, a dire il vero, da quello che ho letto, piuttosto
insoddisfacente. Tuttavia, per la grandezza del personaggio (e per l’adorazione
che ho per lui), ho deciso che almeno un suo film andava visto e analizzato.
Ho scelto “Che
tempi!”, pellicola di Giorgio Bianchi del 1948 tratto dalla commedia teatrale
“Pignasecca e Pignaverde” di Emerico Valentinetti.
La trama, ambientata tra il’39 e il ’45, racconta le vicende
di Felice Pastorino (Gilberto Govi), uomo sulla sessantina rimasto vedovo e,
soprattutto, classico taccagno genovese. Felice vuole majà sua figgia Anna (Lea Padovani) con suo cugino Alessandro Raffo
(Paolo Stoppa), in quanto tirchio come lui (da qui il titolo della commedia teatrale
“Pignasecca e Pignaverde”) e sicuro così che il suo patrimonio finirà in buone
mani, andando però contro la volontà di Anna, innamorata e decisa a voler
sposare Eugenio Devoto (Walter Chiari), che alla fine la spunterà, grazie anche
all’aiuto del suo Principale argentino Manuel Aguirre (Alberto Sordi).
Govi presenta subito Zena
e i zeneisi. Il film comincia, infatti, con una bella panoramica della
Superba, ripresa dall’alto (direi, da Castelletto) e una delle prime scene è un
manifesto del tipico uomo genovese:
Il Sig. Pastorino camminando per strada si imbatte in un bello zuenotto che chiede l’elemosina, argomentando che è
senza lavoro. Pastorino con tono deciso e scontroso gli risponde: “In porto c’è
lavoro per tutti!” e prosegue il suo cammino. Pochi metri più avanti si trova
di fronte una signora che, a sua volta, sta chiedendo l’elemosina: Pastorino si
ferma, le sorride, tira fuori il borsellino girato dalla parte opposta alla
signora, ci guarda dentro per “farsi i suoi calcoli” e le regala due palanche. Scontroso, mugugnone e taccagno, ma è soprattutto la scorza ad
essere ruvida, mentre il cuore, come si vedrà ancora meglio col proseguire
della pellicola, è tenero e animato da sani principi e buoni sentimenti.
Gilberto Govi è stato uno dei più grandi attori di teatro
della storia e la sua recitazione, anche in un film, è superba, tuttavia i
ritmi del cinema, con le ripetute pause e la tecnica recitativa differente
rispetto a quella del palcoscenico, non gli rendono totalmente giustizia e
sembra abbia fatto un po’ fatica ad adeguarcisi, tanto che, certe battute che
mi hanno sempre fatto piegare dal ridere nella commedia teatrale, nel film
risultano un po’ mosce. Anche il ritmo della commedia è moscio, come se, per
adeguare la sceneggiatura teatrale ai ritmi più blandi e scanditi del cinema,
il regista avesse tirato fin troppo su il piede dall’acceleratore.
I momenti romantici mal s’intrecciano con quelli comici e mi
è sembrato di notare un “ondeggiamento” delle riprese, in un paio di scene, non
dettate da una registrazione vecchia e difettosa (ma potrei sbagliarmi) e,
comunque sia, il film ha un sacco di magagne,
tipo stacchi non perfetti e inquadrature un po’ così.
Positivi i duetti con Paolo Stoppa e, soprattutto, con gli
allora sconosciuti Walter Chiari e Alberto Sordi (Albertone nazionale che Govi ebbe,
praticamente, il merito di lanciare, seppur in un ruolo che non gli diede la
possibilità di mostrare le sue grandissime, allora sconosciute, doti). Non
male, anche la recitazione di una giovanissima Lea Padovani e delle comparse (per
lo più attori della compagnia teatrale dell'attore genovese).
Tuttavia, tirando le somme, il film risulta effettivamente
mediocre e non rende giustizia, ne al genio di Govi, ne alla spassosissima commedia
teatrale.
Quindi, in conclusione, il consiglio che mi sento di dare ai
cinerofumiani è: se in una serata “divanosa” avete voglia di tradire la settima
arte con un po’ di sano teatro, buttate su una qualunque commedia di Govi e
passerete due ore a farvi delle grasse risate di altissimo livello. Se invece
la voglia di settima è impossibile da controllare, lasciate riposare la
grandissima “maschera” genovese in pace.
(Ste Bubu)
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