Sarà stato martedì scorso. Ma sì, in cucina, c'era anche Aporty; "vediamo un po' che offre il buon Oberdan, 'sta settimana...". L'occhio scorre poi s'arresta. "Cazzo, c'è Billy!" (un po' alla Begbie). Questa ormai è la nostra reazione quando Billy Wilder fa capolino. Sarebbe potuto succedere di tutto ("Hitch" e la sua posta nera furono più sfortunati, domenica sera, vedendosela con le FF.SS. ed un infelice), ma io ed Elena saremmo stati in quella sala: "Scandalo internazionale", del 1948, con due regine dei due mondi, la Dietrich e la Arthur, a loro agio nelle vesti di femmine in lizza, una di tenebra, l'altra di miele.
Anche questa volta, l'ennesima, davanti a noi di è dipanata una commedia, rosa e leggera, che tira dritto senza tentennamenti, lanciando frecce a destra e a manca, su quel ridicolo animale che è l'uomo.
Trio d'amore ben allestito, sulle macerie di una Berlino "gruviera, rosicchiata dai topi"; volti da star cinematografiche che non sempre riescono a tenere lontano l'occhio dallo sfacelo tutt'attorno, anche perché l'orecchio ne sente di cotte e di crude; wilderiano nel midollo, anche questo film non sparerà a salve, si mettano l'animo in pace un sacco di tipologie di uomini, convinti che la propria sia la voce migliore, l'idea più giusta, l'unica ragione. Il quasi esordiente (nella "Settima") John Lund è un belloccio cui pure la luminosissima e pudicissima Jean Arthur dovrà cedere; Marlene Dietrich, ancora una volta, appare più matura e consapevole, più fredda e pratica, della propria rivale, pur disponendo di un intimo fuoco pronto ad incenerire. Basta vederla cantare "Black Market", mento, labbra e zigomi di ferro, a promettervi un affare impossibile da rifiutare. Tra i quindici Wilder cinerofumati, questo non spicca (Billy, tu sai quanto ti amiamo), ma il maestro del graffio apre ancora il sipario sull'ipocrisia di un'America salvatrice, lasciando spiragli per divertirsi, innamorarsi, incazzarsi.
(depa)
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