"Pipa, cappello, chapeau et voilà..."

Questa sera, dopo anni in coda, sono riuscito a far accomodare in sala Uander, un artista che ha lasciato un suo segno originalissimo nel modo d'intendere l'arte cinematografica, frutto di una visione personale minimalista, anticonformista, spensierata: Jacques Tati. "Mio zio", del 1956, è uno dei suoi film più celebri. Metrica cinematografica non di altissima digeribilità, qualche ingrediente d'oltralpe un po' stagionato, ma una poetica che rimane per delicatezza e visionarietà.
Dopo anni, ho ritrovato le immagini, tenute a mente, nello stesso posto dove le avevo lasciate, riprova del fatto che, piaccia o no, i quadretti allestiti dall'autore francese s'imprimono nella retina. Come potrebbe essere altrimenti? Minimalismo sonoro e visivo, rumori e colori dal forte contrasto; come scenario prevalente una villa futuristica che scatta come un automa di giorno, osserva dall'alto i movimenti sospetti di notte. Surrealismo concentrato nei gesti e nei suoni, per evidenziare le buffe manie, le futili rincorse che ci portiamo appresso sbuffando con un sorriso stanco.
Tati, in questa pellicola, disegna due mondi del tutto opposti, divisi romanticamente da un muretto di periferia crollato. Da una parte il mondo reale che, suggerisce, faremmo meglio a non lasciar morire; dall'altra la dimensione chiusa di ognuno, protetta da cancelli e muri, ornata da fontane improbabili, basata su rapporti freddi e lontani, per carità!, dal ogni ridicolo: l'unica comunicazione è quella che la padrona di casa, orgogliosamente, attribuisce alle vuote stanze della moderna dimora. Nuovo cinema muto per raccontare una sordità, l'incapacità di cogliere la vera musica di un giorno vissuto. Esclusa la tormentosa voce del citofono, e di tutto ciò che è elettronico, Tati estrapola i suoni che ci circondano per vedere se, per caso, ci ricordassero qualcosa (a proposito di ciò che li produce). Quindi si fa tributo affettuoso al cinema e ai suoi artisti che furono. Per poi proseguire, dando una carezza al gesto differente (come può esserlo fermarsi a chiacchierare per strada o ideare, nel 1956, una pellicola così). Con risultati differenti, il comico vecchio stile lo avrà pur messo in conto: Elena non sarà certo l'unica a non mandare giù questo boccone, a tratti sì, pure troppo raffinato.
Rimane la magia di monelli e cani randagi, "liberi di sbagliare". Monsieur Hulot se ne va così, senza drammi, noia, né paura, conscio che qualcosa resterà...
(depa)

1 commento:

  1. Bello bello bello.
    Lo zio, elemento di rottura all’interno di una famiglia racchiusa in schemi e costrizioni nel nome dell’avere e dell’apparire, è uno spasso da seguire e ammirare. Dissacrante e divertente.
    Significativa la scena in cui rompe la pianta da giardino (credo fosse una pianta) nella ossessivamente perfetta casa della sorella, distruggendone la perfetta simmetria, al confronto di quella in cui “rimette a posto” un mattone di un muretto comunque già semidistrutto e “disordinato” che, come ha scritto depa, divide simbolicamente, ma che fa già parte del “mondo reale”, come a volerlo conservare.
    Non mi sono perso un passo o una battuta di questa pellicola. Un po’ mi sono incazzato nel vedere la vita che il povero nipotino è costretto a vivere, ma ho anche sorriso amaramente nell’ammirare le mosse della sorella e del cognato del protagonista e ho anche riso di gusto quando, per esempio, il nostro eroe rompe il bicchiere in cucina, convinto che sarebbe rimbalzato come la super moderna brocca.
    Un film appassionante e completo, insomma.
    L’armoniosa colonna sonora scandisce alla perfezione il ritmo e le scenografie così colorate e ben studiate catturano lo sguardo ad ogni passaggio.
    Il finale “zuccherato alla Walt Disney”ci sta e un nuovo gran bel film, grazie ad un ennesimo suggerimento from sala Uander, è passato anche in sala Town.
    Rastafari bless u

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