Il terzo appuntamento con il ciclo "Cina: prima e dopo", organizzato al "circolino" di viale Monza 140, ha previsto la proiezione d'un film del 1933, diretta dal regista, classe 1900, Sun Yu: "Piccoli giocattoli" è un muto che ci catapulta negli anni del cinema espressionista, ricco di una sensibilità ormai perduta tra effetti ad alta definizione, ma che, spesso, si perse nelle paludi d'una bieca retorica qualsiasi, nazionalista prima, populista la volta dopo...
Poiché, accettato che, nei primi anni del secolo scorso (!), i cinesi dovettero sorbirsi note propagandistiche stucchevoli come ogni altra lagna di quel tono, tenuti in costante erta di fronte allo storico nemico d'oltremare, durante la visione di questo film può accadere di incazzarsi un pochino; non troppo, poiché alla fine verrà offerta anche la lettura quasi opposta, così che ne possa emergere, quasi quasi, addirittura un messaggio fortemente antimilitarista. Il cinema può tanto comunque, lo sappiamo. Ad esempio, in questa pellicola vi potrà capitare di sentire una tenace artigiana inveire contro i paesi ricchi (stranieri), poiché "fanno giocattoli senza passione, in serie, coi macchinari!". Roba di altre epoche davvero. Siamo ancora lontani dagli ultimi minuti della pellicola (quelli "redentori"), quindi sullo schermo ci viene servita ancora qualche insipida pietanza nazional-popolare ("Lei dice che noi cinesi siamo indietro, ma vuole studiare all'estero", toh, corsi e ricorsi...non giudiziari; poi: "Se non forgiamo i giovani...combatteremo con gli stranieri quando cresceranno?!", evvai; e ancora: "Umiliarsi di fronte alla tigre comporta diventare cibo!", questa ha il suo fascino...).
Sul piano stilistico, è un espressionismo ancora vigoroso (l'occhio del rapitore del bimbo) che sta per lasciare la strada ad un realismo un po' acerbo ma d'effetto (vedasi la chiusura, in soggettiva, della palpebra lacrimosa). Dissolvenze, movimenti macchina minimi e aeroplani di carta che planano giù tratatata, coi mondi della guerra e dei giocattoli che si sfiorano, costruendo un contrasto che stride con astuzia. Una strana pellicola, quindi, ora innovativa (il flashback a metà pellicola sorprende lo spettatore), ora anchilosa. Inoltre, i flessi nel ritmo ci sono, in alcuni momenti la noia fa le fusa, sino a quella fatidica, forte ultima sequenza: ecco cosa succede pronunciando una volta di troppo il nome del proprio popolo e sviluppando, di giorno in giorno, un solo muscolo, quello del dito indice puntato contro lo straniero.
Se "la bellezza è negli occhi di chi guarda", allora sì, questo è un film anti-imperialista. Lo decido io, ora, qui.
(depa)
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