Week end genovese strano, calmo, ma strano. Sala Negri in versione ostello. Una VHS sempre pronta. Prima Barabba, venerdì. In proiezione un film polacco del 1981. "L'uomo di ferro", di Andrzej Wajda. Film di cronaca, di anni spesi per la libertà, pagati con la vita (anche senza morte). Mescola appassionatamente immagini realistiche a raccordi narrativi che riescono a coinvolgere.
Ancora una volta al contrario, parto dalla fine della storia. Quindi mi ritrovo a rivivere gli anni a cavallo tra '70 e '80, a Danzica, teatro di grandi tumulti sociali e, una grande in particolare, tra le tante, la vicenda di Maciej, studente-operaio antagonista, figlio del protagonista di un precedente film del regista polacco. Non è un problema, provvederò in fretta, anzi, perché questo seguito mi ha colpito. E' un retrogusto gradevole, quello che ti lascia, forte amaro, una sorta di fondente. Robusto. Ideologia che non infastidisce; non è peccato. Personaggi complessi, su tutti l'inquieto e coraggioso Maciej, presentati nell'intimo e nel sociale. Le sequenze storiche, a mio avviso, hanno irrobustito l'aspetto di quest'opera, già sobria ma con una sua estetica, fatta di immagini solenni quanto una semplice, ma giusta e forte, idea. Sin da subito: il racconto degli scioperi dell'apocalittico 1970 polacco; le alte mura entro le quali gira in tondo Maciej, l'ascesa finale di Solidarność, come tutte le grandi vittorie, fatta di tante minori ma indispensabili battaglie. Vale sempre la pena di un vergogna in più, masticato per quasi tre ore. Per questo motivo, tutto il doloroso travaglio di lotta non dev'essere abbandonato. A Marigrade l'onore di chiosare su di un film che dev'essere visto non per una sola ragione: "A volte c'è qualcosa che resta...".
(depa)
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