Tra le altre, una cosa bella dell'"Oberdan" è che in programmazione può capitare un film d'autore, così, senza l'obbligo di una rassegna ad esso dedicata. Ieri è toccato a Louis Buñuel e avremmo potuto, io ed Elena, mancare l'appuntamento con uno dei registi che più ha contribuito a spingerci a questo incessante percorso cinematografico? Certo che no. Tutti in sala Merini, quindi: "El" ("Lui"), del 1953, appartiene alla prima tranche delle pellicole messicane e, secondo me, al filone meno visionario e simbolista del regista spagnolo.
Perché, parliamoci chiaro, Francisco è assillato da vere e proprie paranoie, sotto forme morbose di gelosia, possesso; sbalzi d'umore, schizofrenie private, nascoste ad una società che non sa andare oltre l'apparenza e che, c'è da giurarci, anche se scoprisse, accetterebbe perché in esse rivedrebbe con fastidio la propria meschinità riflessa, difficile da confessare, da riconoscere pubblicamente. Tappeto senza confine, la borghesia ha un esercito di scope al proprio soldo. Ed ecco che si è uomini onorevoli e senza macchia. Matrimonio come possesso, religione e ipocrisia. Insomma, i temi cari al regista di Calanda (nessuno è salvo: anche i due piccioncini, alla domanda finale sulla paternità, attuano, senza memoria, la strategia dell'omertà). La pellicola è piacevole perché ben costruita, con un flashback a "brucia pelo" che colpisce, e intrisa della graffiante ironia dell'autore. Ma io ed Elena, ormai abbiamo bisogno di quell'altro Buñuel, quello che ci fa smarrire e ritrovare, impazzire e riflettere. Bravissimo Arturo De Cordoba, nelle vesti di un Francisco capriccioso, dispotico, romantico, folle e disperato. Cara borghesia ti vorrei così, in clausura, a tener compagnia, a zig-zag, ad uno dei tuoi più tristi rappresentanti.
(depa)
Nessun commento:
Posta un commento