Russia 1547, inizia l'epopea degli zar. In quell'anno, infatti, il sedicenne Ivan IV si autoproclamò "cesare", intenzionato a rendere eterno il proprio regno ("Terza Roma"); ma perseguitato dai demoni della sua giovinezza e perennemente sotto il tiro dei molteplici nemici, giustificò il lento declinare della traduzione del termine Groznyj con cui venne conosciuto nel mondo occidentale: da "tonante", "minaccioso" a "Terribile". Quasi 400 anni dopo, il maestro espressionista russo Sergej Mikhajlovič Ėjzenštejn, ingabbiato dalla retorica stalinista, ci pose davanti questa potente opera artistica che è anche un importante documento storico: "Ivan Il Terribile - Parte I".
La prima sequenza di questa pellicola, che ci catapulta subito in medias res (proprio in quel 16 Gennaio, giorno dell'incoronazione), è un inno all'espressionismo cinematografico; retaggio di un cinema che non c'era più, testimonianza di una retorica che, purtroppo, ci sarà eccome. Gira quasi la testa, a respirare questo mix (espressionismo frammisto a demagogia), quando i due elementi sono così puri, alti.
I volti delle persone, le volte della basilica; gli occhi spiritati e le ombre incombenti; ogni oggetto sullo schermo è amplificato e deformato, ad imporre solennità del momento e sinistro presagio.
Ivan è stato appena, meravigliosamente, ricoperto di monete d'oro, che già gli sguardi avversi lo circondano minacciosi. D'altronde si è permesso di chiedere ai ruffiani boiardi e ai pigri clericali, almeno, di rimpinguare le casse dello stato.
E così le pupille volteggiano mentre lo zar si commuove.
Siamo nel 1944 e, forse, non ce n'era proprio bisogno. Paghi dazio cara Russia Made in Stalin, il cinema s'è fermato. Mentre nel resto del mondo la Settima scheggiava tra inseguimenti e sperimentazioni; il pubblico russo ascoltava i "Kazàn!" gridati, costretto ad un'ingenuità così vuota da rendere palese all'istante cosa s'intenda per arte, cultura e società bloccate da una dittatura crudele quanto ridicola. Se qualcuno si fosse distratto, questo è l'opera ultima di un pilastro del cinema espressionista, ci cui abbiamo già, al 'Rofum, apprezzato alcune opere e saggiato la maestrìa.
Comunque, i boiardi sono degli infami e, infatti, il primo grande zar inciamperà tra le loro oscure gambe, parrà spacciato. Al posto del legittimo Dimitri, quei maledetti vorrebbero Vladimir, uno che non riesce nemmeno ad acchiappar mosche.
Sullo schermo, lo sfacelo della grande Russia, dinanzi a minacciosi occhi sempre vigili. Ma no! Ivan risorgerà, i boiardi di nuovo all'angolo! Ritmo serrato, un bianco e nero soffocante! Ma lo zar non è più lo stesso...
Le sue stesse ombre lo assillano, gli indicano la strada verso l'oriente (bellissima immagine) ma la rabbia dei boiardi (vero incubo) ritornerà come marea scura e la fedele zarina ne verrà travolta...
Il regista, con luci ed ombre, racconta alla perfezione il crescendo della febbre d'ira, l'accecante rabbia che rinvigorì e spossò quello zar solo e stravolto. Si circonderà di un fidato "anello di ferro", cesellato dai "pronti a rinnegare la propria stirpe", decorato dalle piccole gemme del popolo.
Se "Mosca sarà e una quarta Roma non sarà" si sarebbe dovuto scoprire nei seguenti capitoli della trilogia incompiuta. Le premesse, con quel popolo in processione, obbediente, in ginocchio, a rendere omaggio allo zar scappato a leccarsi le ferite e a ritrovar sé stesso, ci sono tutte...
L'anchilosi della spinta artistica della Russia '40 emerge lampante anche confrontando la staticità (pur nella sua potenza) di questa pellicola con la dinamicità (non meno potente) della sequenze dell'"Aleksandr Nevskij" di sei anni prima.
Obsoleto e retorico. Stupendo.
(depa)
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