Non che questo novembre
non ci abbia già saziati, con firme grosse tra l’altro. Ma, furia per
furia, leggiamo “Die My Love” in uno dei nostri cinema qui in giro, allora tra facce note a fare una nuova conoscenza. Il quinto lungometraggio, in 25
anni, della regista scozzese, classe 1969, Lynne Ramsay colpisce per intensità.
Perché picchia, senza scappare anzi scagliandosi contro il vetro di un
malessere infrangibile.
Alle 18:30 di giovedì, eravamo una quindicina nella larga Sala 1 del “19’’” di
vico San Matteo, all’introduzione in questo nido d’amore, ereditato, con una
tappezzeria che piacerà ad una madre vestita così. I titoli incendiari punk
illudono su passioni libere e vitali. Invero annunciano emo catastrofi. Scene
conturbanti, dopo 6 mesi c’è ancora un fottuto caldo ma lo sguardo è salito ad
altezze siderali, dove nero inchiostro e bianco latte si mescolano. Sotto la
cenere. “Sei come la colla, quella giusta”. Spegniamo la musica! Per
cominciare, i classici! E fanculo le chitarre. Uno schianto, direi. Ma cazzo, tra bambino e cane, ovvio che la
ciabatta parta. Maternità. Voglia di qualcosa di diverso. Noia? Creativi contrappunti
musicali e sequenze più da cinema indipendente che hollywoodiano. Aggiungici 2
mesi e mezzo di diserzione coniugale…POST-PARTUM. Tutto passa! Sì, sposarsi.
Autolesionismo, una costante. “L’animale che è in me” pigia. Anamnesi: orfana
da dieci anni. Diagnosi: trauma da abbandono. Ma sì, “coniglietta pasquale”,
“malgrado noi”, ce la si può fare. O no? Un malessere divorante sussurra
“basta” e si dà alla piromania.
Interessante.
(depa


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