Nonostante un sabato sera milanese
parecchio impegnativo e divertente, cominciato con un Milan - Sampdoria da
dimenticare e finito a camminare sotto la pioggia battente alle cinque di
mattina in direzione Depa’s house, il giorno seguente io e il socio
fondatore del ‘rofum, convinti e presi
bene, abbiamo affrontato una lunga maratona cinematografica cominciata nel
primo pomeriggio e finita alle dieci e mezza di sera. I film in programma allo
Spazio Oberdan erano tre e il primo a cui abbiamo assistito è stato l’ottimo “La mia droga si chiama Julie” (“La Sirène du Mississipi”) di François
Truffaut, pellicola del 1969 con la bellissima, allora ventiseienne, Catherine
Deneuve e l’affascinante Jean-Paul Belmondo.
Riordinati i neuroni, ci siamo
immersi in questa storia sempre attuale. La pellicola in questione narra di un uomo
che diventa talmente succube della propria donna, tanto da perdonarle ogni
menzogna e ogni tradimento, totalmente schiavo di un amore che più si complica
e più diventa forte.
Louis rimane stregato e
impossibilitato a reagire o scappare. Il piacere si confonde con la felicità e
la felicità diventa sinonimo di ansia, dolore e sottomissione.
Julie non fa nulla per evitare
tutto questo, ma ciò non sembra essere un suo piano prestabilito. Alla lunga, infatti,
anche lei rimane affascinata e impossibilitata a scappare da questo amore così
cieco e profondo che sente nei suoi confronti da parte del marito.
Il maestro francese è bravissimo
nel regalare emozioni di autentica tenerezza, rabbia e fastidio in un film che
però rimane per lo più leggero, a tratti quasi comico (tante le risate del
pubblico dell’Oberdan), senza che una nota dello spartito risulti mai fuori
posto o inappropriata.
Inquadrature ad hoc come quelle
sull’autovettura di Louis rimangono impresse nella mente, oppure immagini come
quella del vestito in vetrina, che sono una totale esplosione di colori. Anche
le ambientazioni e le atmosfere rimangono positivamente impresse, mentre la
storia non smette mai di appassionare, raggiungendo in alcuni frangenti
dinamiche quasi thriller da apprezzare sicuramente. Il finale non delude le
aspettative anche se di “finale aperto” si tratta, ma d'altronde una storia d’amore
con queste dinamiche non ha mai una fine, bensì solo un seguito.
Gran bel Truffaut.
(Ste Bubu)
Eh sì, per il 4° compleanno del Cinerofum non abbiamo voluto privarci di nulla. Il primo piatto è stato questo ottimo Truffaut.
RispondiEliminaQuando tu parli di thriller, si tratta in effetti, di un gioco tributo del regista francese ad uno dei suoi maestri ("Hitch", of course), evidenti i richiami ("Vertigo").
E' una storia d'amore improponibile, malata per costruzione, che sulle prime può ricordare il sapore di buone cose dalla terra, ma alla lunga emerge il retrogusto di OGM.
Amore con seguito ma di fantasia, immaginifico e nevrotico. Direi quasi che le gambe, se non sono corte, certamente storpie. Ciò non vuol dire che non si debba raccontarle, anzi. Per una volta il titolo italiano non deraglia del tutto, anche se quello originale con maggiore eleganza descrive ciò ci cui abbiamo parlato davanti ad un panino falafel/pizza, non si può parlare di passione né disperazione (visti i fatti) ma di un invisibile filo che trattiene contro ogni volontà, sino all'autodistruzione. Ma sempre con la brezza Nouvelle Vague.