Sabato pomeriggio grigio. In quel di Genova. Elena con un po' di mal di testa. Allora, in sala Negri, si chiudono le tende, si scalda il tubo catodico e s'inserisce la VHS. Questa volta è il turno di un film che apprezzo di più ogni volta che mi capita di rivederlo: "Butch Cassidy and the Sundance Kid", del 1969, è un western che spacca gli schemi, incentrato sull'amicizia di due caratteri liberi sempre in fuga, sino all'ultima. Ottima regia dello statunitense George Roy Hill (1921-2002).
Gran film dall'inizio alla fine, dalla primissima sequenza con filtri color seppia, lo sguardo di ghiaccio di Robert "Kid" Redford e l'ironia travolgente di Paul "Butch" Newman. Atmosfere lontane, sì, e che tipi quei due! Personaggi ricchi di fascino plasmati da una sceneggiatura fresca e delicata (seppur tra polvere e dinamite), da dialoghi originali, frizzanti, giusto un velo d'inquietudine, e da una regia d'autore, con silenzi avvolgenti e campi perfetti a descrivere la profondità degli spazi ma anche il continuo legame, filo non visibile o solo all'orizzonte, suono di galoppo lontano, tra prede e cacciatori.
Non solo silenzi, anche musiche da farfalle e sorrisi, da celeberrime pedalate, perché in quei deserti rocciosi si può danzare per giorni e notti. Campi lunghi puntellati da zoomate tipiche del genere. Quasi a ricordare che l'individuo, laggiù, ancora conta.
Il più simpatico e il più veloce del far west sono una coppia d'oro su scenario di bronzo. La libertà del vasto Ovest in contrasto colla gabbia dei braccati. Ci sono anche le donne, certo, ma solo una è quella che conta. Anche se è libera di andarsene quando vuole (e l'importante è che non piagnucoli!), è libera solo con loro. Triangolo da nouvelle vague, alla Truffaut, è vero. Ma solo "alla" lontana, come brezza, niente di più. Per esempio Catherine era un centro gravitazionale, mentre qui è la languida Katharine "Etta" Ross a ruotare attorno ai due tenebrosi e affascinanti pianeti.
La Bolivia è la terra lontana, sognata a lungo, è fuga e rinascita. Ma è anche soltanto un'illusione, perché ad ogni passo ci portiamo appresso tutto, sempre. Il passato, sotto forma di oscur indiani segugi, cappellini bianchi o sceriffi più tenaci, non sa nemmeno che diavolo sia una frontiera. Figurarsi la Nero Vestita, quella ti stana ovunque.
Quando i due ladri gentiluomini si sporcano le mani di morte, simbolicamente, è già giunta la fine. E questa, signore e signori, è una splendida fine. Tra le migliori.
(depa)
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