Venerdì scorso, è stato il turno di un film ambientato nel Centroamerica, precisamente tra Guatemala e Messico, nazioni attraversate dai convogli della disperazione, sui cui tetti milioni di ragazzi e ragazze, uomini e donne, sperano verso il sogno americano. "La gabbia d'oro" (t.o. "La jaula de oro") è un film struggente, appassionante, meraviglia per occhi e cuore. Regia dello spagnolo Diego Quemada-Diez, classe 1969. Produzione Messico/Spagna, sezione "Un certain regard" a Cannes 2013.
E' una storia di corse, di lotte per la vita. Quindi di morte. Film crudo, in cui umanità e disumanità del nostro genere si alternano con grande intensità. Incorniciando con sincerità un quadro più che sconsolato. Il piano inclinato è inesorabile, non resta che stringersi chi si incontra e lasciarsi andare.
Tre ragazzi, precoci lottatori, eroici "ladri di gallina" di tutti i tempi, vogliono andarsene, tra loro c'è una bella ragazzina sotto mentite vesti mascoline. A uno di loro subentrerà un indios che non spiccica una parola di spagnolo. Da questo nucleo prende il via un viaggio cosparso di fughe e catture, litigi e abbracci. Attorno ai protagonisti, l'infinita serie di volti senza speranza e di grinte abbruttite dalla violenza. La guerra tra poveri impatta sul cuore dello spettatore che non riesce a voltarsi. Basta farabutti indotti. Le società, certo. Hanno responsabilità, noi tutti coinvolti. Sappiamo e stiamo. Infami che violentano da codardi, in gruppo, col fucile in mano, altri disgraziati (comunque meno dei loro carnefici). Dico a te che col governo pensi ci sia solo da guadagnare ma, in realtà, te la fai semplicemente sotto...tu sì che sei bravo, arma in mano, a colpire, rapinare, umiliare e ammazzare. Mi ricordi i tuoi colleghi col contratto.
Scusate.
La pellicola è davvero potente. Ogni mattino, o in questo momento, esistenze gettate al macero che si alzano e camminano. Alcuni compagni di viaggio si fermeranno, o verranno fermati. Spermatozoi fuori tempo massimo, colla consapevolezza di poter pagare col conto più salato. Ma si va. Il capitalismo ci ha indicato la direzione.
Steadicam condotta con maestria, sequenze angoscianti si susseguono ad altre di forte empatia. I pochi momenti musicali, durante le estenuanti traversa, comunicano malinconia, alienazione e ditruzione. Struttura solida, gli autori possono aggiungere passi ai passi (in mente i finali azzeccati dei Dardenne o di Kim K.): sarebbe potuto concludersi con la luce in fondo al tunnel, dopo la drammatica perdita del gruppetto di amici, con le solite profonde parole di un pazzo; o subito dopo, con la pomposa ma efficace immagine dei fari della locomotiva nel buio, al passaggio a livello, ma la successiva scena della "restituzione del favore" ci sta. Così come sarebbe potuto finire sulla seguente sequenza sul tetto del treno, i due amici compatti ma soli, bella musica e immagini da brivido.
Mi sovviene l'entusiasmo che suscitò "City of god"; elettrizzati commentatori ricordavano quello scontro a fuoco, quella scena di violenza. Là eravamo nelle tristemente famose favelas, qui in una terra senza più nome. Senza snobismo, ho trovato questa pellicola molto più delicata, truce, consapevole; meno spettacolare. Complimenti al regista di Burgos che, come assistente di Loach, ha imparato molto, su come non girare.
A tutti i bambini/e, ragazzi/e e uomini donne che lottano per la vita, ogni giorno.
Voto: 8.
(depa)
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