Qualche sera fa, in sala Ninna, ho visto “Un re a New York” (1957), primo film inglese del mitico Charlie Chaplin dopo il ritorno alla terra natia a causa del maccartismo, penultimo della sua carriera e ultimo come attore protagonista.
La pellicola è chiaramente figlia dell’amarezza che l’artista inglese provò per le accuse che gli vennero mosse dal governo degli Stati Uniti.
Il protagonista è un re di uno stato europeo che va in esilio negli U.S.A., da egli ritenuta come la patria della libertà. Dal momento che scenderà dall'aereo però la sua vita non sarà molto tranquilla, avendo a che fare con una giornalista che vuole sfruttare avidamente la sua immagine, il mondo della pubblicità, un bambino terribile e la Commissione per le Attività Antiamericane.
I momenti comici sono sporadici, ma esilaranti come sempre nelle opere di Chaplin che dimostra di non aver perso la creatività e la verve, nonostante l’età non più verde e un numero incredibile di pellicole alle spalle.
Le accuse più dirette ed esplicite all’America vengono espresse per bocca del figlio undicenne Michael che interpreta la parte di Rupert, un bambino figlio di genitori accusati di essere filocomunisti.
Arriva forte e pungente la satira sui sistemi d’indagine dei Servizi Segreti Americani, atti più a trovare del marcio a tutti i costi per incutere timore e tenere la popolazione “in riga”, più che la verità.
Chaplin si toglie una serie di sassolini dalla scarpa, trai quali quello di dichiarare esplicitamente che era stato lui ad essersene voluto andare dagli Stati Uniti perché la sua popolarità, per certi versi paradossalmente, era ulteriormente cresciuta dopo le accuse ricevute.
Una commedia piacevole, a tratti divertente e molto interessante dal punto di vista (auto)biografico.
(Ste Bubu)
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