Ieri sera, saltato un appuntamento cinematografico con le tre P., mi son ritrovato con un Lars Von Trier. E per caso un sottile filo ad unire i due registi c'è stato: la tragedia "Medea". Infatti entrambi si cimentarono nella trasposizione cinematografica del testo euripideo. Quella del regista danese, datata 1988, ha travolto la sala Valéry, stendendo Barabba dopo una ventina di minuti (sonnambulo cronico) e lasciando me sbigottito, grazie alla forza e alla poesia delle immagini. Da vedere.
Partito da una sceneggiatura del suo maestro Carl Theodor Dreyer e di Preben Thomsen (1933-2006), non sfociata però in alcuna pellicola, all'inizio di questa il regista precisa che di rispettoso omaggio si tratta. Devoto discepolo qual è, von Trier non avrebbe potuto azzardarsi a non sottolinearlo. D'altra parte, il suo carattere vulcanico lo ha spinto ad impugnare quella sceneggiatura, interpretare rispettando più possibile lo spirito originario, senza paura di metterci il proprio, creando ed elaborando una trasposizione accademica quanto audace. Ad esempio, il magistrale incipit, da lezione dedicata all'espressionismo cinematografico (montaggio). Medea ha i muscoli bloccati sull'arena, le sue mani stritolano ogni granello del mondo. Le mani sulla sabbia!. I fotogrammi si susseguono, tra la classicità del testo e la solennità delle immagini. Le parole son pietre, la regia è sontuosa: scenografia plasmata da luci e ombre, dissolvenze, dettagli, sovrapposizioni. Il ginocchio sbucciato del bimbo! L'occhio della madre! (ah, non questo non c'entra...).
La gelosia, la rabbia, l'estasi, la menzogna, la disperazione e altro. In poco più di un'ora, gli ingredienti universali già sintetizzati dal drammaturgo ateniese trovano cornice e cassa di risonanza di qualità, grazie al susseguirsi di trovate filmiche ricercate quanto angoscianti. Il cavallo! (ditemi che è una controfigura...un attore!).
Nelle basse lande danesi, e ancora più giù, Giasone disintegrato da una donna tradita; incazzata. Occhio.
(depa)
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