Il papa bacia sempre i dittatori

Stasera, secondo spettacolo, Elena ed io ci siamo diretti verso il palazzo Reale per vedere un film cileno di cui qualcuno, mannaggia a lui, ci parlò bene. "No - I giorni dell'arcobaleno", del 2012, è il 4° film del regista Pablo Larraín, nato a Santiago del Cile nel 1976. Il narrato è il referendum "SI/NO" alla permanenza di Pinochet. Che dire? Molto scarso.

Il film comincia e il giovane regista cileno sorprende lo spettatore con una scelta coraggiosa quanto di difficile digestione: le immagini infatti paiono uscite realmente dall'epoca dei fatti narrati (1988), colori smunti, immagini talvolta leggermente sfocate, effetti che ricreano la sensazione di osservare una pellicola di repertorio, sulla via dell'usura. Quella di utilizzare cineprese a questo scopo si rivelerà l'unico dettaglio degno di nota
Infatti i minuti passano e mi ritrovo a non provare un'emozione. Nemmeno in Italia nel 2013, o forse proprio per questo motivo, scatta la molla del coinvolgimento (i motivi ci sarebbero, eccome).
Ciò che è peggio, oltre alle motivazioni emozionali, pesano anche sbavature grossolane sui piani stilistico e narrativo. Nel primo caso, un movimento della m.d.p. verso sinistra, i due protagonisti maschili in automobile, dal cofano anteriore, salutanti ("ti vergogni di stare con noi"), molto elegante. In pratica, come veder un tailleur allo Zapata; nell'insieme la regia non lascia ricordi particolari nella retina o nella mente. Nel secondo caso (piano narrativo: lo storyboard) c'è quel consiglio di José Urruita (credo) al cameraman, "Telefona quando arrivi", che grida vendetta, pronunciato nel momento stesso in cui si vede che, effettivamente, fuori dalla villa le cose si mettono male. Verrebbe da uscire, roba da -3 voti. Ma come? Il film narra di un gruppo di dissidenti, per quanto "allineati" (no molotov in mano), ad una dittatura fascista e raffiguri un episodio del genere, preparandomelo con un consiglio da genitore apprensivo? Era necessario? Andiamo avanti: continuando a parlare del canovaccio portante del film, non posso dire altro che è noioso, monotòno. Si può essere cresciuti a pane e Inti-Illimani, ma il risultato non cambia. Prova del 9, non si avverte alcun climax emotivo, pur trattandosi di una corsa per la libertà, per la vita! Non c'è attesa per l'esito finale (pure prevedibile, al di là che sia un fatto storico reale: nella realtà, il pepe al culo, la gente per la strada ce l'avrà avuto? La rabbia di spezzare per sempre quelle catene sarà emersa con potenza per le strade? Dalla pellicola non passa nulla di tutto ciò), non c'è countdown politico-esistenziale. Ci sono dei cretini che fanno un video che dice "W l'allegria", altri che dicono "W come stiamo adesso". Il Cile e i cileni di allora furono molto di più. Le uniche persone che ho sentito vicine sono state: la ex del protagonista ("Bravo, partecipa anche tu al teatrino, fatevi prendere in giro" gli dice, in sostanza) e il più rabbioso degli antagonisti di Pinochet che, nell'ennesima patetica proiezione, liquida il resto della ciurma con un "vaffanculo" cui mi sarei associato al volo. E il bello è paradossale: il finale del film pare proprio perorare quel grido sdegnato.
Concludendo si tratta di una pellicola in cui la frase solitamente qualunquista "ma allora mi guardo un documentario" può essere pronunciata senza paura, tant'è facile darle contenuto: non sfrutta i vantaggi della struttura filmica e, soprattutto, perde qualcosa nel confronto con un taglio documentaristico.
Il titolo della recensione fa riferimento al punto più alto della pellicola, quello in cui viene mostrato, in filmati di repertorio, l'arrivo di Papa Giovanni Secondo (per gli amici Wojtyla) in terra cilena per santificare uno dei peggiori dittatori dell'America Latina, lasciato in vita sino al 2006, vergogna tutta secolare.
!Viva Chile!
(depa)

Nessun commento:

Posta un commento