Questa sera sala Uander a consacrare il nostro idolo, Bubu; a ben vedere, soprattutto grazie alla tua collaborazione, ai tuoi stimoli e rifornimenti. E' passato un anno circa da quando ti sei unito al Cinerofum, divenendone l'altra colonna portante. Quindi la recensione de "L'isola" di Kim Ki-Duk (5° lungometraggio del regista, del 2002) è dedicata a te. Non siamo stati traditi nemmeno questa volta, quando te l'avremmo pure concesso...
...e, invece, quest'opera è pura Ki-Duk; in nuce tutti gli elementi del cinema del creativo regista sudcoreano. Il suo simbolismo condensato in vesti certamente più aspre ma non acerbe. Gli elementi sono ravvisabili in maniera evidente: i silenzi, la dimensione onirica, fiabesca di personaggi e luoghi, questi ultimi rovesciati di segno divenendo non luoghi incontaminati, o molto poco corrotti dalle incursioni del mondo là fuori (intrusioni che, in genere, contribuiscono a rendere il gioco sempre più pericoloso, la temperatura sempre più elevata: la gelosia, per esempio, tra gli agenti della combustione). Per esempio, ne "L'isola", potremo trovare elementi cuore de "L'arco" (di 5 anni più giovane): l'acqua come elemento purificatore, materiale isolante, o addirittura risolutore (complice); l'altalena ricondurrà al gioco, all'innocenza, parentesi di pace nello scontro costante tra le forze; il sesso nelle sue due (infinite?) facce. E così via. Cinema simbolista, appunto. Punti neri da unire per vedere che ne viene fuori, se si è dell'umore adatto. Sì, perché è un cinema personale, intimo. Anche in questo film, il regista allora quarantenne, non dimenticò di iniettare una forte dose di sadismo, seppur inquieto, in continua lotta interna (la protagonista).
Una domanda interessante potrebbe essere: chi vide questo film, 13 anni fa, poté cogliere, nel linguaggio dell'originale regista, gli elementi della sua poetica? Credo di sì. Senza bisogno di enunciare i vari momenti della pellicola, è evidente che nell'insieme, è possibile cogliere l'affascinante messa in scena di iperboli cinematografiche con le quali vengono rappresentate le passioni umane, spinte all'estremo, spesso mortalmente.
Verrà, forse, un'armoniosità maggiore, ma non riesco a scrivere di maturazione: Kim Ki-Duk era già tutto (certo Pietà è un monolite finito).
Tra i tòpoi mi sono dimenticato di elencare il caso, ulteriore elemento da non prendere in considerazione. In ogni...suo film, non sbaglia un finale: questo, invece, è certo.
Non mi riferisco alle ultime due immagini, che non ho compreso (avrei dovuto?), bensì all'ennesima fuga da tutto.
Tu, invece, rimani, Bubu! Eh, devi commentare! E poi, ce n'è ancora tanto...
(depa)
Prima di tutto ringrazio Depa per avermi dedicato questa recensione e per avermi proposto, un anno fa circa, di scrivere per il Cinerofum, cosa che mi ha subito preso e ha contribuito a far crescere la mia passione per il cinema.
RispondiEliminaE ti ringrazio pure per avermi praticamente obbligato, qualche mese dopo, ad andare al cinema a vedere “Pietà”, pellicola che mi colpì molto e mi fece venir voglia di approfondire la conoscenza del regista coreano Kim Ki-duk… fino a che sono arrivato ad eleggerlo ad idolo del ‘rofum! Titolo meritato perché quello che ho scoperto con la visione dei suoi film è stato un mondo unico e meraviglioso di colori, immagini, ambienti e sentimenti, emozioni continue, poesia su pellicola.
Il regista coreano, a mio parere, ci regala tutto ciò soprattutto attraverso opere come “L’arco”, “Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera” e come in questa magnifica “L’isola”, senza voler comunque sminuire opere come “Ferro 3”, “La samaritana” o “Pietà” stessa.
Il mio sguardo non si è distolto per una frazione di secondo dallo schermo di fronte ad un’opera come questa, catturato com’ero dai colori, le forme e la dinamicità delle immagini che sono arte già di per se. Troppo banale sottolineare la capacità di Kim di mostrare gli avvenimenti sempre dalla prospettiva più coinvolgente ed emozionante, in questo caso, attraverso le riprese subacquee, ma non neghiamogli niente a sto genio malato, va'!
“L’isola” è un’altra favola delle sue, ambientata in un luogo privo di schemi e costrizioni, un ambiente libero ed infinito nel quale il sentimento dell’amore vive potentissimo ed è legato direttamente alla violenza, al dolore fisico, della “regina degli abissi”, un personaggio non totalmente “umano” perché priva di parola e soprattutto a suo agio in acqua come a terra, quando si sfregia la vagina e viene “ripescata” dal suo amato che da quel momento sentirà il bisogno di lasciarsi andare e prendersi cura di lei, proprio come a parti invertite in precedenza. Dopo la violenza, l’amore.
Anche la morte è trai temi presenti. Sullo sfondo della pellicola sin dall’inizio col tentato suicidio di lui e fino al finale che Kim Ki-duk, ancora una volta, propone in doppia veste, trasmettendo adrenalina e stupore. Un finale amaro perché conseguenza di un fatto casuale solo in apparenza, visto che la fine della serenità, la libertà e l’amore dei due protagonisti è causa di un azione di chi fa parte di un mondo convenzionale e materialista che nulla a che vedere con quello favoloso, semplice e “distorto” della loro storia e del loro sentimento.
Tanto simbolismo (commoventi i due pennelli che "si amamno") e “metrica cinematografica” sublime che per un’ora e mezza mi ha fatto sognare…
Ancora una volta sono stato catapultato in un ambiente e in situazioni surreali che mi hanno portato a riflettere sul dove si possa spingere l’essere umano per raggiungere la libertà, l’appagamento amoroso e la spiritualità più pura e incontaminata da tutto ciò che la società, coi suoi prototipi proposti e imposti, ci da accompagnandoci lungo un cammino che potrebbe essere semplice e lineare, ma non sincero ed emozionante.
L’amore, la violenza, la relazione tra le due e la morte e il suo significato: tutti argomenti proposti, riproposti, sviscerati e analizzati in tutte le maniere e da tantissimi autori e artisti, ma come lo fa Kim… miao.
Avanti un altro… ancora ce n’è… bella socio!