Cronaca di un martirio annunciato

Settimana scorsa, sala Ariston, "Oltre la collina" del romeno Cristian Mungiu, due ore e mezza che scorrono senza troppe cadute. Una certa ripetitività può infatti essere una sorta di accentazione-accentuazione, unica enfasi posta al servizio di una narrazione peraltro scabra, limpida ed essenziale. Il ritmo infatti è disteso e si offre a noi stimolando molteplici spunti riflessivi.
Apro parentesi. Ci sono film non incalzanti, la cui struttura diegetica ti permette di articolare spunti associativi durante la visione stessa; film che mettono in moto osservazioni che formuliamo nel tempo, magari dopo giorni o settimane, continuando a ruminarne i contenuti in uno spazio temporale variabile e soggettivo; altri che ti mozzano il fiato, paralizzano i nessi cognitivi, i contenuti sono assolutamente secondari, non senti il bisogno di enuclearli. Preferisco questi, il film in questione sta nella prima categoria, peraltro affatto disprezzabile. La storia si snoda pacata, ora sulle protagoniste ora sul contesto, con equilibrio ed equidistanza. In un degrado sociale estremo, si muovono come zombi tra le macerie personaggi per cui la strada, quella strada non potrà mai essere neppure il luogo in cui defilarsi. Nel primo dei quattro unici esterni metropolitani, tutti si aggirano come cani randagi supplicando una tregua, almeno una pausa nell'agognato monastero oltre collina. Questo ci appare come una vera e propria oasi, in cui vige reciproco rispetto, equa divisione del lavoro, messa in comune dei mezzi di produzione, dove si consuma un po' meno di quel che si produce e il plus-valore prende la strada della beneficienza: la priorità è sfamare i bimbi dell'orfanatrofio, le suore possono benissimo rinunciare a qualche uovo. In questo modello sociale equo e solidale è inserito un codice familiare assai bonario e supportivo: c'è un padre autorevole e giusto (il prete ortodosso), c'è una madre affettuosa e comprensiva (la suora più anziana) e persino le regole e gli adempimenti religiosi sono assai laschi. Di colpo, di ritorno dalla Germania, irrompe il disordine metropolitano e minaccia quell'ordine costituito su fondamenta labili, con smania plateale e ostinazione, pretendendo di sottrarre la sua amica, peraltro poco convinta sia della fuga sia del convento, e di riportarla nel mondo. Quando la superstizione e i riti arcaici (se pure implorati dalla stessa e non imposti dal padre il quale si mostra infatti assai reticente), irrompono sulla scena, la situazione precipita e anche la più tollerante delle istituzioni si trasforma in sadico meccanismo di morte spietato ed insensibile ai richiami e alle suppliche. Il martirio molto richiama quello pasoliniano di "Mamma Roma": identici il tavolo, i lacci e lamenti, la disperata solitudine. Un cenno di pietas viene dall'amica, non ancor del tutto omologata ai canoni monastici, che apre il lucchetto delle catene ahimè troppo tardi (sadismo inconscio nella tempistica?), solo dopo aver fin lì osservato la scena dalla finestra, ad una certa distanza. Paradossalmente spiccano in positivo aree istituzionali extra religiose, quella sanitaria psichiatrica e le forze dell'ordine. Infatti, durante i due ricoveri vediamo una psichiatria dal volto umano, dialogante e poco incline alla contenzione fisica e, in ultimo, una polizia garantista, attenta a stabilire eventuali responsabilità, se pure un po' naif e macchiettistica, vedi scena della sigaretta sull'auto. Mentre il pope e alcune suore sono costrette, in quanto indagate, a seguire la polizia al commissariato, l'ex-amica-non-ancora-monaca conserva ancora un certo senso civico e si offre testimone volontaria. Deformazione professionale, un cenno sull'eventuale inquadramento diagnostico della vittima sacrificale perché si sentiva in sala serpeggiare il dubbio se la tipa fosse matta o solo disadattata, mero prodotto di antinomia sociale. La domanda protocollare del bonario e illuminato psichiatra sulle eventuali voci udite e la risposta affermativa della paziente sono a mio parere dettagli irrilevanti nella dinamica della storia. Qui la ragazza rappresenta il perturbante, inteso come ciò con cui Freud denominava l'alterità assoluta, il "non familiare", che può essere impersonato da chiunque non sia omologo al sistema: rivoluzionario, straniero, folle od omosessuale, purché conservi forza eversiva, poco importa. Alla ipotetica e inespressa domanda risponderei che non ha alcun senso fornire risposta.
(marigrade)

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