Con la frequenza di una sola al mese, spesso relegate nella piccola e torrida "Filmclub" da 4x10, esce nelle odierne sale cinematografiche una pellicola da procurarsi, tanta la "scimmia", poca la sostanza (che gira). Cinemadipendenti, martedì eravamo in tre per "La ragazza del fiume" (t.o. "Suzhou River"). Il regista è Lou Ye, classe 1965 di Shanghai. "Sesta Generazione" di registi cinesi, quelli del putrido di vita, nella limpidezza dell'immagine. L'Anno il 2000, quello dei capolavori, più che sul sentimento puro, sul puro sentimento. Il risultato è un flash indimenticabile. Chiedere al tempo.
Si parte con un incipit mozzafiato, un girato spaventoso. La m.d.p. si esibisce in una nuova danza, coi passi confusi e incespicanti dell'amore. Si è scomodato, giustamente, un maestro del cinema cinese (peraltro collega del nostro). Se ricorda Kar-wai lo fa per la stessa concezione dell'amore, interstizio d'incontri già trascorsi. Il fiume "Shuju", deriva e approdo di transiti che si sfiorano, legami fluttuanti, in preda ai moti. Poco si consumerà, se non dello spirito. Contatti nati storti, resi eterni da un guizzo. Il regista non calca, a meno dell'insistente voce off, ché un autentico melò metropolitano non ne ha bisogno. Tra i resti urbani vivono gli amanti più preziosi. Versi sporchi, per un'ode fangosa, requiem ubriaco, al ricordo dell'amore inesistente.
(depa)
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