C'era una sera calma e silenziosa. Era una di settembre. In sala Valéry regnava l'immobilità, quando decisi di aggrapparmi a un sudcoreano. Song Kang-ho, mi son detto. La star dal volto buono, nel 2018, fu diretta dal connazionale Woo Min-ho, classe 1971, per una distribuzione Netflix: "The drug king". Apertamente hollywoodiano, dichiaratamente in salsa korean, il risultato, oltre alla mia simpatia per il poliedrico attore, esalta le deficienze qualitative di questo vorace colosso dell'entertainment. Pronto a tutto, tranne per il cinema.
Seventies coreani, tra metanfetamine e ice. Lee Doo-sam parte da lontano, da Certosino, pronto ad ogni umiliazione. Per arrivare, là dove Tony Montana crollò. Estratto di storia vera. I giapponesi post-bellici, kamikaze sotto shock rabbiosi di lussuria, ai koreans ne chiedono eccome (gli scambi di stereotipi tra queste due popolazioni, sono le cose più interessanti del film).
Taglio basso, commedia leggera, a tratti comica (come Song, che interpreta il pusillanime quanto determinato traffichino, ci ha abituato). "E' molto bravo a contare i soldi". "E' bravo in inglese e anche in coppettazione". Rallenti comandati e patina "All night long fever" per l'atmosfera che si imitava (e imita) un po' ovunque. Hollywood vi combacia. Bisogna saperlo fare. Dopo una faticosa ascesa, a quaranta minuti dalla fine, a furia di buchi di Ice, pure il nostro amico di Gimahe diventa un Duro e piazza le mani ai bei volti delle eleganti. E' fatta. Il dado rotola. "Evitiamo i paroloni e iniziamo a frequentarci" sarà una delle sue vette. Puzza d'avidità, certa droga se la porta appresso. Lee Dong-sam è in tilt. Solo due cani per amici.
Cinema sudcoreano che, di volta in, non teme di guardarsi negli occhi, alzar lo sguardo al proprio passato, tra corruzione diffusa e repressione violenta (elementi d'ogni stato moderno che possa dirsi sano). "Odio davvero chi ha i soldi e basta". Sino ad un certo, variabile, punto. Che botta, Ice & Whiskey. Naturalmente, sarà carriera politica. Cicatrice insanabile, l'ego odierno. Un po' del lupo di Wall Street, molto del citato cubano depalmiano (stesse movenze nell'armarsi, strafatto, all'interno della lussuosa e desolata villa, con l'inquadratura sui monitor delle telecamere a guardia della stessa). E di tanti altri. Proprio quando il nostro tira fuori la sua ars drammatica, "giustizia" è fatta. Game Over. Compitino, calzante per cinetrici da Netflix.
(depa)
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