Max Cady è qui

Poi ieri notte, dopo aver dedicato 100 minuti a Bubu, "Iris" mi ha ricondotto al cinema classico. La programmazione che mi impedisce di leggere pre-nanna prevede "Il promontorio della paura", quello del 1962, quello di J. Lee Thompson, con Robert Mitchum e Gregory Peck. Il terrore della forza bruta contro i cristalli. La cieca violenza vendicatrice che blocca le membra. Si resta a guardare, affascinati dalla paura.
Il regista inglese (1914-2002), la cui prolifica filmografia non gli ha certo portato gloria, si presenta porgendo questo incipit, sinuoso e già sinistro, che è un piccolo gioiello cinematografico. Balletto d'immagini, volteggio del montaggio. Poi, il sigaro di Robert Mitchum. Il "suo" Max Cady è uno cattivo coi fiocchi, con buona pace del Peck. Il volto fotogenico del californiano non ha lo sguardo bieco del collega della East Coast.
Max Cady è arrivato in città, "probabilmente all'asciutto. Possiamo incastrarlo per vagabondaggio". "Useremo tutti i mezzi possibili", assicura una polizia diligente. Ma sua figlia, la quindicenne californiana Lori Martin (1947-2010), ha la morte violenta stampata in volto. Violenza sessuale, non v'è dubbio. Cani avvelenati, incubi. Dialoghi altalenanti, ora azzeccati (-"Sei sicuro di voler scegliere proprio me?", -"Sì...sì", "Se non sbaglio sta parlando di grana"), ora frettolosi e superficiali (sempre la polizia). Trappole per reati contro la morale. Max Cady le donne le picchia poi si vedrà ("Era solo un esempio..."). Thompson amante delle dissolvenze, nelle vicende del "Cape Fear River", riesce a dettar suspense dal nulla, o quasi, coll'arrivo di Mike alla casa galleggiante, nemmeno atteso, addirittura pianificato. Peck fa il gufo, mentre lo sceriffo, Mitchum dopo l'assalto, a petto nudo, al Forte Minore, fa una brutta fine. Il finale, invece, è bello secco.
Gran film, di quelli che possono spingere amanti, come Scorsese trent'anni dopo, a far tarantinate d'oggi, col remake che è una rimpatriata dei "suoi" miti.
(depa)

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