Ema è forte

Vabbè ma prima scriviamo un po' di "Ema", del 2019, ultimo e ottavo lavoro di Pablo Larraín. Alla "1" dell'"Ariston", il Cinerofum vince facile 3-1. Marigrade, Elena, io + un tizio al centro della sala. Non certo le bolge per il regista cileno. Peccato? Chissà? Nel benemale, "Ema" è qualcosa di nuovo. Eroina col fuoco dentro, calcolatrice tra calcolatori, diabolica guerrigliera lungo sentieri nuovi. Priva di parole pop e chiacchiere cacofoniche, Ema sta coi fatti.
Un semaforo in fiamme, una musica da sciagura. In questa pellicola altamente sonora, Ema è braccata. Non conosciamo Ema. La conosciamo. Ragazza tutta danza e bambini. Non il suo. Quindi il mirino, nel suo radar impassibile, non perderà di vista l'obiettivo. Dopo 20 minuti, la nebbia s'apre su qualcosa di brutto. Temo per il film, non per il bimbo. Ema non gli ha spiegato, per bene, che il fuoco è pericoloso. Ma Polo è felice.
Film antipatico, da pro o contro. Ma questa pelicula ha carattere. Perché, diciamolo, rischia, lasciando in bocca il sapore della lotta. Il giudizio chiama a rapporto mille canoni, telefona ad una decina di ipotesi. Cosciente di esporsi, piuttosto spariglia. Consapevolmente distante dalle retoriche progressiste del cinema mainstream, in una Valparaiso periferica di campetti e moli decaduti, si entra nel fuoco dei barili dei senzatetto. Di coloro che quel tetto, o sfonderebbero a suon di ballo scatenato, o incendierebbero con tutto dentro ("The root is on...").
"Prevedo tensione". Il suono incombente carica a molla queste ragazze dinamite. Le murene del reggaeton si sono alleate. Le streghe in tuta, body, o pelliccia (sintetica), fanno il sortilegio. A proposito di etichette, Ema è una punkabbestia, ballerina di rabbia, senza droghe tranne il sesso, tutti contro. Ogni forza alle sue armi. A riproposito, qui si rischia pure di alzare i mediobassi dance movie (musicali?), for tin tin teenagers only. Potenza energia, più che coreografia. Non il carillon di seta, ma la farfalla di metallo. Non il pony rosa e la nuvola arcobaleno. Ma lo scatto metallico del meccanismo ad ogni dentello.
L'amore brucia ancora, eccome. Furia e fuga d'orgasmi per arrivare. Ema ha visto il proprio piano nello stesso momento in cui ha impattato sul muro, in quella strada grigia con sta stronza dello stesso colore. Ottima lezione.
Il cinema cileno ringhia da anni contro burocrazia logorroica autoreferente e slegàmi sociali alienanti. La questione sessuale mai risolta (come altrove). Madri e psichiatre (o madripsichiatre) coi medesimi freddi schemi. Siamo tutti "turisti del cazzo".
In "Ema" c'è anche tutta la nostra, apparentemente insolubile, ACCIDIA. Il compagno di Ema incarna l'incomunicabilità profonda quanto di bassa lega che ci attanaglia. Urtante come i migliori personaggi di Larraín.
Avrei chiuso su Ema in taxi, fuoco calmo sul suo Polo (anche se le fazze dei genitori...). Soprattutto, avrei evitato la coppia contrita sul letto d'infanzia mancato. Il finale, cogli attori a rapporto in una cucina falciata dai raggi solari, ha suscitato tra i 'Rofumiani un acceso confronto. Per alcuni troppo "solare" (si rievoca addirittura la famiglia Mulino Bianco). Senza scrivere con la spocchia di chi non ha controbattenti, credo che la distanza, in quella stanza, sia la stessa di tutta la pellicola. E se la società (borghese), questo è vero Marigrade, dimostra di essere in grado di assorbire rabbia e dolore, il disincanto no. Il regista pare chiosare con algida pietà: "vedete voi che gran successo".
Finali a parte, al regista di Santiago del Cile classe 1976, il 'Rofum compatto riconosce l'estrema virtù di non essersi fermato, di essere uscito dal sentiero, quasi come Ema. E' un gran tentativo. Anche e soprattutto perché non è fallito.
Ancora una volta: chi è diabolico? Chi è pazzo? Chi sbaglia?
Chi è forte?
(depa)

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