Spaziare in sé

Il secondo film "on fly" è del fresco vincitore dell'ultimo Leone d'Oro (2018). Nel 2013 Alfonso Cuarón realizzò il suo precedente e forse più celebre film, "Gravity". Interpretato da due sole star di Hollywood, Clooney e Bullock, punta sull'intimo fascino di un infinito spazio, silenzioso e spettacolare, bello quanto letale, riuscendo nella scommessa di non venire relegato tra i blockbuster dalla locandina patinata.

Difatti il taglio autoriale impostato dal regista messicano è lampante, in una pellicola fantascientifica dove il ritmo non è quello di razzi e proiettili (almeno sino a quando qualcosa non vada storto), ma è quello lento ed ovattato di una tuta spaziale che s'incammina verso una compito qualunque (missione la chiamerebbero). Quei luoghi paiono davvero avere per colonna sonora un valzer circolare, una sinfonia orbitante attorno a tutto il resto. I silenzi scanditi dal respiro dei due protagonisti, affacciati al balcone sul Pianeta Terra, così come le centellinate e futili parole (anche le banalità, lassù, paiono assurgere a valori universali). Il film vince anche perché dove arriva l'uomo più ambizioso, proprio lì lo stesso scopre la sua infinitesimale forza, puntino caparbio ed irriverente che tutto vuole e nulla stringe (nella regione transatmosferica non ci sono decreti assurdità né polizia, né sfruttamento dell'uomo sull'uomo, per ora). Insomma una pellicola, studiata bene e realizzata meglio, dove acciaio e detriti ricordano di una materia davvero letale (se sfiondata senza grazia), ed interpretata col terrore (Stone) e la disinvoltura (Kowalsky) che la situazione richiedono. Da vedere.
(depa)

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