Solo con un cane

Domenica scorsa, in sala Valéry, ancora Vittorio De Sica. Quando il Cinerofum si prende una cotta, lo sapete, diventa appiccicoso, ossessivo. Non che, a riguardo, si faccia dei problemi; anzi, adora insistere. E continuerà a farlo sino a quando quest'indole degradata gli procurerà pellicole come "Umberto D.". Del 1952, dedicato al padre, in esso il regista infuse un'eco di tenerezza così amara che, complice il sempiterno rimpianto del Sommo Fuggitivo, la sua visione risulta appagante quanto straziante.

Neorealismo fino ad un certo punto, tanto è circondata da un'aura magica, per quanto dolorosa, questa storia di vecchiaia, isolamento e indifferenza. Cinema carico di poesia dove i piccoli gesti sono rappresentati con una melodia che ricorda, sì, una vita trattenuta con le unghie, ma di mani che sanno le carezze più affettuose. Dalla magistrale interpretazione, l'unica ad oggi, del glottologo trentino Carlo Battisti, allora settantenne, tutta una nazione dimenticata. Dalle sue ritrosie, inquietudini e orgogli, l'angosciosa condizione, non certo dei soli pensionati che chiedono un aumento, bensì di una popolazione ormai costretta a vendersi (e comprare). Dilania il cuore osservare le avvilenti lotte quotidiane del vecchio ingranaggio ormai spanato; al confronto la giovane domestica pare un gigante, con la sua fiaccola mortale (il giornale, per le formiche), abile ed arruolata dei suoi tempi. Nella sua immagine, semmai, ravvedo la delicata concretezza del neorealismo nostrano. Come nella spietata padrona di casa, o nei tanti dagli occhi di iena, nell'infermiera baciapile di turno, o negli amici falsi o colleghi menefreghisti. Ma Umberto e Flaik, no. Il loro rapporto, amore intimo e salvifico, già lì innalza oltre il tempo. Più in là del denaro e dei treni, dove nessuno oramai li può riconoscere.
Nell'Olimpo della Settima.
(depa)

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