Che merd[)e...

Giovedì scorso, scusate il rit., Spike Lee. Al "City" è in programmazione l'ultimo lavoro del regista afroamericano da sempre in lotta contro il razzismo, dietro la m.d.p. e davanti ai microfoni. Elena ed io fummo pronti per "BlacKkKlansman". Lontano dall'esplosiva quanto sterile retorica, spesso mancante il bersaglio (il nesso economico su tutti), questa volta l'autore di Atlanta pensa a confezionare un film d'azione che intrattiene, diverte e, con sorpresa, ancor più di roboanti accusatorie individua vari aspetti del problema (come detto, non tutti).
La pellicola inizia coi terrificanti ma ormai consueti ruggiti dal solito pulpito televisivo. Grida e grinta contro i più deboli, sempre sfoderando fantasiose aberranti ed involutive invettive. Di fonte a tutto ciò, anche solo immaginare come un ragazzo di colore possa ipotizzare di entrare nel copro di polizia, è già di per sé demoralizzante. Ma gli Stati hanno i loro piccoli spettacoli per il popolino, che vi si reca sempre numeroso. La pellicola è permeata, con sapienza, da blockbuster con vesti tarantiniane sin dall'inizio, con ammiccamenti ai blaxploitaion, tra l'altro qui rievocati tramite una suggestiva passeggiata lungo le mitiche locandine degli anni '70 del cinema nero. Altra escursione nel passato cinematografico sarà quello di David Wark Griffith, con la nota polemica che vide il glorioso antesignano difendersi pure con significative e tolleranti opere successive. Mi limito a dire che anche quello era un blockbuster, d'altissima qualità tra l'altro, e che anche un regista newyorkese di culto passò dei guai per la violenza dei suoi druidi matterelli. Ricordano un po' le diatribe sui videogiochi violenti. Come se il problema fosse la rappresentazione del male e no questo. O Lee è d'accordo, o è ancora più lucido di quanto pensassi: dubbio lecito poiché nel film la recriminazione avviene durante un parallelo che, questo sì, farebbe sbiancare anche un uomo di colore.
Una chiara ed esplicita richiesta di assunzione di responsabilità. Quella che in pochissimi esigono, quella che nessuno dà. La logica del "non è una mia lotta" ci ha portato a ciò. La lotta per la sopravvivenza declinata in salsa capitalista sotterra ogni mutuo appoggio tra gli individui. Alla maschera della simpatia preferimmo, secoli fa quella, dell'odio.
Non solo. Altro punto fondamentale, illuminante (e mi sorprendo, dinanzi al focoso Spike), è il dialogo tra il protagonista novella recluta ed il capo di polizia, in cui quest'ultimo spiega che "fermati quelli incappucciati, ci sono quelli in cravatta". Poi, se vogliamo continuare nell'illusione che sia solo finzione...perché se è semplice vedere l'introduzione, quindi lo svolgimento, di questa pellicola e metter su una faccia schifata, lo è ancor più  relegarla ad un'insana, esuberante e macchiettistica deriva sociale (complice, in parte, il regista, anche se in effetti sono buffi, quanto pericolosi), non riguardante i nostri gesti quotidiani.
Dialoghi che qua e là alzano il livello del dibattito, finalmente. Per non parlare delle infiammanti parole gridate dal pulpito, questa volta, degli sfruttati. Ma a farla da padrone è il divertimento nel vedere il nostro (ben interpretato dall'ex football player John David Washington), architettare la trappola e metterla in pratica (tappandosi il naso per le classiche spruzzate di caffè del capo che, assieme ai colleghi, non ratterrà le risate più hollywoodiane).
Purtroppo tutto vero, anche le MER[)E (compresi chi le assoda).
(depa)

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