La settimana scorsa sono andato al City, perché è un cinema di cui, tutto sommato, ci si può fidare, poi perché il film che vi proiettano pare aver racimolato giudizi positivi, oltre che essere una pellicola colla testa a posto. E "Il figlio di Saul", in effetti, è un film maturo, terribilmente realistico, capace di essere un documento storico, oltre che significativo, di gran valore artistico. Questa pellicola diretta dall'ungherese László Nemes spalanca le porte di un Auschwitz infernale.
Film che lascia poco spazio tra lo spettatore e le celle mefistofeliche in cui sacchi che respirano di terrore vengono spostati. Il processo di spersonalizzazione perpetrato in maniera assillante e demoniaca dai nazisti viene raffigurato con incisione acuta e ritmo elevato. Corpi vuoti, esistenze morte in moto perpetuo, inerzia spettrale. Buon ritmo (quello di rabbia e vergogna), nonostante lo stile bugiardamente semplice: in realtà sono lampanti la ricercatezza e la qualità delle immagini. Una lunga sequenza di morte. In tal senso è azzeccata l'idea di porre il fulcro del racconto su di un corpo già spirato. Per chi si ostina a non trovare differenze tra vivi i morti, ogni gesto diventa eterno. Tutt'attorno, una fotografia fumosa e grigioverde, ruggine gassosa, neroseppiaverde che tutto regredisce, ad uno stato che non si posa, che non è. Metallo che sbatte, sfiato caldo che annebbia la ragione. Solo quando compare Ella, una musica lontana accenna a qualche nota. Nota che è meglio raggiungere al più presto, per non essere più qui.
Ma è il figlio? Sì, certo, è il figlio. Il finale perfetto ribadisce il tocco duro, poetico e disperato, degli autori. Consigliatissimo.
(depa)
Film che lascia poco spazio tra lo spettatore e le celle mefistofeliche in cui sacchi che respirano di terrore vengono spostati. Il processo di spersonalizzazione perpetrato in maniera assillante e demoniaca dai nazisti viene raffigurato con incisione acuta e ritmo elevato. Corpi vuoti, esistenze morte in moto perpetuo, inerzia spettrale. Buon ritmo (quello di rabbia e vergogna), nonostante lo stile bugiardamente semplice: in realtà sono lampanti la ricercatezza e la qualità delle immagini. Una lunga sequenza di morte. In tal senso è azzeccata l'idea di porre il fulcro del racconto su di un corpo già spirato. Per chi si ostina a non trovare differenze tra vivi i morti, ogni gesto diventa eterno. Tutt'attorno, una fotografia fumosa e grigioverde, ruggine gassosa, neroseppiaverde che tutto regredisce, ad uno stato che non si posa, che non è. Metallo che sbatte, sfiato caldo che annebbia la ragione. Solo quando compare Ella, una musica lontana accenna a qualche nota. Nota che è meglio raggiungere al più presto, per non essere più qui.
Ma è il figlio? Sì, certo, è il figlio. Il finale perfetto ribadisce il tocco duro, poetico e disperato, degli autori. Consigliatissimo.
(depa)
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