Dentro a François Truffaut, ecco dove siamo finiti. La Sala Valéry, Elena ed io. Lunedì pomeriggio che è un ponticello riposante, facile che venga in mente di sedersi e farsi raccontare una storia di "Un ragazzo selvaggio" (1970) cresciuto immerso nella natura, lontano dai suoi simili e dalle loro convenzioni e "conquiste" civili. Come sempre, la leggerezza di una parte, almeno, del cinema del regista parigino aiuta ad una visione curiosa e rilassata.
La dedica ad inizio film a Jean-Pierre Léaud, tutt'ora vivo e vegeto, sa di ringraziamento e riconoscimento: per il successo legato a quella prima folgore che travolse entrambi, direttore ed interprete, e per il carattere introverso, acerbo, che il regista ravvisava nel proprio attore feticcio. Concluso questo "svolazzo", passiamo a questa pellicola dal taglio classico (non certo perché in costume), in cui sfogliare, tra iris in apertura e chiusura e cinguettii di bosco, le conclusioni e i tentativi del dott. Truffaut, specializzato nel cinema dell'innocenza, qui estrema, primitiva, totale. Con l'apporto fondamentale delle musiche, accompagnamento e raccordo, Truffaut ci conduce in questo suo racconto leggero e profondo, aggraziato e stimolante, per tutti i sensi del corpo.
(depa)
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