Dopo l'ennesimo viaggio a vuoto, compiuto venerdì scorso, verso gli Amici del Cinema di Via Rolando, Elena ed io non abbiamo mollato e, il giorno dopo, con largo anticipo, compresa la lezione, ci siamo presentati al cospetto del sacro maestro in Delicatezza e Ironia, Ernst Lubitsch. "Il cielo può attendere", del 1943, è commedia d'élite, opera di pregio e spirito d'artigiano attento.
L'unico technicolor del regista non fa che contribuire, oltre e grazie all'esaltazione dei colori, alla dimensione di racconto dal quale prende via l'intreccio fantasioso. Si inizia con una curiosa prenotazione agli inferi, per poi percorrere le principali tappe di crescita. Il primo cocente rifiuto, la prima grande lezione (con le donne meglio portarsi appresso tanti beatles (premonitore!). Su questo terreno, la copiosa e brillante distesa dei dialoghi, tipica del regista berlinese, che palesa la cura riposta in essi. Docente della commedia, sa che le corde debbono suonare tutte e bene.
Pellicola da camera dalla sceneggiatura sbarazzina e sfrontata sotto il vestito agghindato e rigoroso; dietro il falso cinismo (l'armadietto dei medicinali che si amplia col passare degli anni), conoscenza e vicinanza dei moti di piacere e dolore che ci accompagnano alla Fine. La passione amorosa esasperata, per esempio, il tema di quel vizietto toccato con sapiente leggerezza. Senza lasciare una parola, ma non una di troppo!, per smascherare le ipocrisie che ci governano ("un'elegante Repubblica Democratica"). Lubitsch gioielliere raffinato ed ironico. Ma povero Kansas!
Come Elena, a fine visione, pure io, commosso col sorriso.
(depa)
ps: ottima morte, quella con Nelly infermiera diplomata...!
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