Kurosawa e le verità egoiste

Questa sera, in sala Uander, finalmente, ha potuto effettuare il suo glorioso ingresso nel Cinerofum, uno dei maggiori esponenti dell'arte cinematografica (il 'Rofum chiede scusa per questo inspiegabile ritardo). Il quarantenne giapponese Akira Kurosawa, nel 1950, realizzò la pellicola che lo presentò al mondo occidentale ("Leone d'oro" 1951), solida parabola orientale sull'egoismo dell'uomo: "Rashômon".
Il film inizia e i suggestivi titoli di testa ci introducono, sotto un diluvio in bianco e nero che annuncia foschi eventi, ai tre individui che hanno il compito di condurci per mano in questo racconto sull'uomo, la sua debolezza, la sua falsità (proprio perché soggettiva). Il regista, le dinamiche del cinema muto ed espressionista ben note, si dimostra un raffinato cantastorie, riuscendo sin da subito ad incanalare tutta l'attenzione del pubblico (in questo caso, me). Poi ci pensa la m.d.p. attenta, svezzata, senza timori, a rendere tutto perfettamente coerente, reso ancor più compatto dalla straordinaria preparazione degli interpreti. I quali, in un film low budget, ambientato in due, tre scenari, hanno la possibilità di riempire gli spazi con recitazioni prorompenti.
Vita e morte, tra verità e menzogna. Se anche il demone di "Rashômon" è atterrito dagli orrori dell'uomo, ciò che lo terrorizza non è certo l'epicità degli scontri, dei duelli tra uomini, bensì la loro stupidità, meschinità. I duelli da 23 tocchi di spade possono trasformarsi in risse da bar (la cinepresa, tranquilli, si adegua, senza perdere in efficacia e suggestione), gli onorevoli silenzi in grida irripetibili. La realtà è sempre più prosaica, ma una menzogna che diverte è davvero cosa ghiotta; un maestro dell'arte dei sogni, come Kurosawa, lo sa bene e, allora, bisogna raccontare (e guardare) questa favola orientale in cui il dualismo donna-uomo viene vinto dal Gentil Sesso, addirittura 2-0.
Non si possono capire le cose che fanno gli uomini, ma è proprio così che dev'essere raccontata quest'impossibilità. Grande storia, ambientata in un boschetto senza dove, sullo smarrimento delle anime e tutto ciò che ne consegue.
(depa)

1 commento:

  1. Una storia intrigantissima, resa, in questo, addirittura sublime da una struttura originale, “al contrario”, che vuole mostrare l’egoismo, ma anche l’orgoglio. Il primo e fondamentale obbiettivo di non perdere la faccia agli occhi della comunità, quando in realtà la dignità è nel cuore e nell’anima già crollata sotto grida e risate femminili della “vincitrice”, è vero, ma che ha giocato parecchio sporco. L’uomo ci casca e porta a casa il da te citato 2 a 0 dal ““gentil sesso””.
    Incredibilmente belli i “quadretti” degli interrogatori, inquietante il giusto la deposizione della medium, mentre avrei tagliato un po’ i pianti di lei quando la storia viaggia secondo il suo racconto, ma è una considerazione a puro gusto personale.
    Concordo sul definire gli interpreti “straordinariamente preparati” e sul fatto che la cinepresa che se la viaggia alla grande lungo il bosco, tra gli alberi, ecc., rende il tutto magicamente, “perfettamente coerente”.
    Se si tratta di mattoncini portanti della Settima, la sala Ninna, ancora una volta, ci tiene a stare al passo con la Uander, anche se tocca viaggiarsela fin nel vecchio estremo Oriente ;)

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