Ieri sera (sempre Spazio Oberdan, obviously) me ne sono uscito dalla sala Uander, nel freddo milanese che, lo ripeto, mi ha già rotto a livelli ionosferici, e sono andato a presentarmi al regista statunitense, classe 1970, Paul Thomas Anderson, il regista di Magnolia, tanto per capirci. Il suo biglietto da visita reca scritto "Sydney" e l'anno 1996.
Il regista di Los Angeles, è facile riconoscerlo, è bravo confezionare inquadrature accattivanti e musiche calde che s'accompagnano ad esse. Non ha fretta e si prende il suo tempo, alla velocità del fumo che sale da una tazzone di caffè caldo. Attento ai dettagli, affida ad alcuni primi piani tante parole non pronunciate. La storia di Sidney, ideata, scritta e diretta da Anderson, è una piacevole favola immersa nelle allucinanti luci di Las Vegas sino al punto in cui esse possono fondersi sino ad inebriarti. Ma è lui in particolare, proprio Sidney (l'ottimo statunitense Baker Hall), il vero punto d'interesse della pellicola, affascinante personaggio dalle sfumature complicate, con i punti di congiunzione non ben delineati. E, secondo me, la parte migliore si ha quando tutte le forze della pellicola sono tese al tratteggio di questo carattere. Dall'aggressione in poi, ci si va ad incanalare nel filone dei "polizieschi" senza note particolari. Anche se, in questa maniera, si offre a Samuel L. Jackson l'occasione di esibirsi in un monologo che lo riporta a pochi anni indietro, a quel "Pulp Fiction" che lo consacrò, evitandogli altrimenti un ruolo un po' sacrificato. Prima della sterzata, la storia ha qualcosa della parabola rothiana, del sogno notturno che chissà dove finirà. Ma va bene, coraggiosa anche la scelta dell'autore di non adagiarsi.
A parte l'irritante stupidità dell'altro protagonista, "John" C. Reilly (comunque buon interprete), il film è leggero, piacevole e girato senza infamia.
Ah, se lo guardaste, potreste spiegarmi il trucco messo in pratica nel casinò...boh.
(depa)
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