La settimana scorsa, Cinerofum in trasferta, al Plinius, a pochi passi. Sempre la solita coppia, per vedere un film il cui titolo fa tremare le gambe. "On the road". Silenzio. Oppure tuono. Dipende dal momento, da chi ci sta attorno. Ma il soggetto da cui parte questo film è il testo sacro di chi, in qualunque modo, cerca una reazione, propria o degli altri, e se non la trova, si mette a camminare. Il regista di Rio de Janeiro, classe 1956, Walter Salles, assieme ai due protagonisti, Sam Riley (Leeds, 1980) e, soprattutto, Garrett John Hedlund (Roseau, USA, 1984), hanno una responsabilità enorme. Dare forma ai pensieri, ai ricordi di chi, da quando ha letto quel libro che nel 1957 diede il beat ad un ritmo inespresso, non si è più scordato di Dean Moriarty.
Il regista di "Central do Brasil" e de "I diari della motocicletta" ci ha già mostrato di essere in grado di raccontare, pur nella sua breve filmografia, una tensione emotiva e un viaggio, elementi che tendono per loro stessa natura a muoversi assieme. Questa volta alza ulteriormente l'asticella e decide di girare il film che "parla" proprio di questo movimento. E quale sarà il risultato? Messe da parte le facili ma comprensibili accuse di ubrìs, in quanto, ormai lo sapete, per me il coraggio nel cinema non è mai troppo, non è mai tracotanza, bisogna ammettere che, se anche il film non copre tutte le sensazioni di un viaggio lungo quanto la Route66 andata e ritorno (e tante deviazioni quanti i nostri cambiamenti quotidiani), almeno il film la direzione la indica. Ecco il film sta al libro come un cartello segnaletico sta all'intero percorso, anzi, a tutto il viaggio. E il cartello non ha 360 possibilità, ma infinite, quindi se il regista non ha ceffato del tutto la direttiva, ne prendiamo il bicchiere pieno. Le due ore e venti corrono, corrono, pare non succeda nulla, ma stava succedendo di tutto invece...
Sembrano infantili sbronze, sterili fumate e, per sincerità, il paesaggio scorre a lato un po' trascurato, la musica si diffonde a volume basso, è vero (come non si assisterà a sequenze memorabili); ma una nota di libertà c'è, non un pezzo jazz fatto e finito, ma il là per vedere se si muove qualcosa dentro lo spettatore.
Ovviamente è vietato vedere questo film senza aver letto prima il "manifesto" scritto nel 1951 da Jack Kerouac e, se l'effetto suscitato da questo film sarà quello di aver spinto una persona a sfogliare quelle pagine, allora la missione degli autori sarà già di per sé "umanitaria".
(depa)
bello molto bello, anzi solo bello.
RispondiEliminaInvece COGAN fa cagare...... abovvo.