Hypocrisy Island

Terza volta che mi imbatto in Alexander Payne, l'autore che alla pagina 601 di quella che chiamiamo "Bibbia" (made in U.S.A.), quindi della nuovissima generazione di cineasti, viene marchiato come "uno dei talenti più brillanti emersi recentemente a Hollywood". Il non più giovane-né prodigio regista del Nebraska, nel 2011, agguantò l'Oscar alla sceneggiatura non-originale con un cine-romanzo socio-ecologico "dem". Attento alla facciata dei piccoli sentimenti, dimentico d'ogni questione fondante. "Paradiso amaro" (t.o. "The Descendants").
Smollato il freddo ambientino di casa sua, il regista di Omaha si ritrova innamorato delle occupate isole Hawaii. Sguardo dolce verso gli indigeni estirpati, così come verso re e regine bianche e nere del passato. Una storia che solo la giovane ragazzina pare tenere in giusto conto. L'ambizioso titolo originale svela l'attacco alla vacuità dell'uomo medio americano.  Ma, tra le inevitabili immagini patinate, i "commenti sulla vita americana in periferia", stavolta un'altra, la satira della commedia mostra la sua inoffensività. Sbalestrando il nostro Payne nella cloaca dei non autori da San Babila, Carignano, Corso Vittorio.
Non tanto perché il nostro tenerissimo George Clooney inizi ad odiare la moglie in coma quando scoperta fedifraga, né perché lesto a non vendere solo per puro egotismo (come se vi fosse bisogno di un legame personale per scoprire i gangli endemici di ogni speculazione). Piuttosto perché al contorno di personaggi giustamente affrescati come cozzaglia di idioti (un bianco lì è senza alibi), non viene accostato il mero non-vivere in quel modo. Le meravigliate sequenze delle corse in jeep tra coste splendidamente servite, e villette e villone e grattacieli (imbarazzanti), sono significative malie statunitensi. Se chi ha condotto una vita criminale può ravvedersi solo grazie ad cartolina hollywoodiana, allora siamo fottuti. Va detto, perché il film (stra) parla, come me.
(depa)

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