Consacrata famiglia

Dopo un venerdì imbizzarrito, ne serve uno queto. Perciò, l'ultima Palma D'oro, vinta dal Hirokazu Kore'eda, pare fatta apposta per catapultarci nelle riposanti atmosfere dell'Estremo Oriente; col taglio dei grandi autori del passato (Ozu è lì, i maghi del Neorealismo appena dietro, Fellini fa capolino), "Un affare di famiglia" dimostra, altresì, la robustezza di una regia che muove sapientemente i protagonisti di questa vivace e malinconica famiglia allargata.

Ancora una volta Elena a guidare la comitiva, ci dirigiamo verso il Sivori, da parte mia preparato ormai ai quadretti familiari, a tinte tenui, tratteggiati nelle ultime opere del regista tokyota. Per nulla affamato dei suoi film, mi ritrovo finalmente a gustarne soddisfatto. Di quelle che chiamerei "vittorie a mani basse", il trofeo accaparratosi in Costa Azzurra. Ottima sceneggiatura, coi bizzarri tarocchi voltati poco per volta; attori scafati che infondono la propria arte nei personaggi ben delineati, le musiche ad incorniciare i momenti dolcemente anti-sociali di questa che, nei fatti, pare una piccola comunità ben più amalgamata e capace di sentimenti autentici che le mono-famiglie sparse tra ville eleganti, palazzi popolari ed uffici, ingabbiate nella falsità dei rapporti economici (o moralistici, ipocriti, che ne conseguono). Sino a nascondere ai miei occhi il dolore che dovrebbe portar con sé il finale risolutivo (che pure vi è, eccome, soprattutto nella "madre"). Preferisco ricordarlo come un gioco sincero, tra bambini, donne e uomini che la sacra famiglia sanno solo attuarla concretamente, in barba a divise,  distintivi e supermercati.
Al termine, Mino si lascia scappare un ozuiano "Tsukaa". Ed ha ragione.
(depa)

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