In sala Uander, ieri sera, io ed Elena abbiamo portato avanti il discorso di Shanghai, Wong Kar-wai. Nel 1994, il quarto film del regista cinese, girato tra una scena e l'altra del terzo, dà vita ad un'altra carezza fatta di colori e musiche: "Hong Kong Express". Struggente nell'inquadrare la solitudine di chi non lo era un'ora fa, dolcissimo nell'accompagnare due corpi nel loro lento avvicinarsi, un film di Kar-wai chiama a rapporto tutti i sensi, adunata generale che sola è all'altezza, quando all'ingresso si presenta lui, l'Amore.
Avendone sentito parlare come l'inizio ideale di "Angeli perduti", che ci folgorò, è con gli occhi sognanti e le mani un po' sudate che pigiamo play. E via, tuffati; giù. Senza cercare di capire: le immagini scorrono, lente o accelerate, musicate dai Mamas & Papas o da Faye Wong (anche protagonista) che disperde in cinese i Cranberries ("Dream"). Storie di passaporti, di cose losche, di droga, ma che ruotano attorno a ciò che ciascuno prova; tutti i traffici possibili, di borsa, di macchine, di coca, annientano ai più l'individualità che ci sta dietro, dentro. E invece laggiù c'è un sottomondo che, ora come ora, soffre di solitudine, "di distanza". Allora, nulla di predestinato, di scritto, e ce le racconta così, Wong Kar-wai, le storie d'amore che sono state, che potrebbero, che avrebbero potuto. Al regista piace anche il riconoscere un gioco, con le due classiche onnipresenti possibilità, vittoria o sconfitta, nell'avvicinamento o nell'allontanamento amoroso. Sembra anche accorgersi che, magari da un punto di vista meramente cinematografico, c'è uno spunto ricco di poesia in quell'elastico tra due individui; anche, e soprattutto, quando si spezza. Da lì nuove deviazioni e nuove possibilità.
Inquadrature, lo ripeterò alla morte, che racchiudono una pennellata che è peculiare di un gran regista; situazioni raccolte in giro e disposte dinanzi alla cinepresa perché siano delicati giardini d'alberi di pesco. Questo è il cinema di Wong Kar-wai.
(depa)
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