In sala Uander: io, Paolino e Ueza; in tre ad assistere al film-ansia con cui John McNaughton da Chicago, classe 1950, decise di mostrare degli ammazzati, corpi senza più vita uccisi senza esitazione, men che meno rimorsi o giustificazioni. Lo fece ottimamente, in maniera originale, utilizzando sapientemente fotografia e sonoro. "Henry: portrait of a serial Killer" (conosciuto in Italia col nome hollywoodiano di "Henry pioggia di sangue") è un film che impietrisce, un'esperienza che sciocca anche, e soprattutto, per le scelte stilistiche, oltre che per un soggetto, una storia che racconta una vera e propria strage.
Sì, diciamo che vedere, nel giro di due settimane, il truce "Martyrs" (2008), lo skinhead "This is England", l'esordiente "Badlands", lo psichedelico "Assassini nati" e, infine, questo film...costringe a stare ben saldi al concetto di civiltà, per non perdere di vista ciò che comporta di per sé, intimamente, un gesto violento verso un'altro individuo. Un po' sbarellati se ne potrebbe uscire. Ma sono tutti film diversissimi e che, ognuno a modo suo, tengono compagnia facendo salire conati e riflessioni (non fraintendetemi, colgo gli abissi stilistici e tematici tra i citati, ma alla categoria violenza direi che appartengono tutti eccome).
McNaughton non perde tempo. Come se sapesse che il film dura meno di un'ora e mezza, dopo qualche minuto ci presenta il caro e buon Henry, uno psicopatico che, per spostarsi, non muove i piedi sull'asfalto, né salta da una liana all'altra, bensì misura lo spazio (e il tempo soggettivo) settando il proprio mirino sulla nuca di chi casualmente gli gironzola attorno. Una roulette russa vivente, in eterna ricerca del proiettile mancante.
Nel film, l'audio è stretto collaboratore della suspence, i colori grigi, spenti, sporchi, i dettagli sempre rovinati, spingono nella stessa direzione. A chi non avesse capito, magari osservando l'avanzare lento, inesorabile, arrugginito, della sua larga auto americana, di quale mente perversa si tratti Henry, il regista dell'Illinois fornisce alcuni macabri input. Non il gesto, l'atto, bensì il risultato bell'e pronto: la telecamera ruota attorno ai corpi ormai immobili, l'audio racconta gli ultimi violenti istanti.
Lo sguardo di Henry non sembra porsi troppe domande, lo stesso fa la cinepresa. Il lato oscuro, putrido, bestiale dell'umanità è buttato lì, sul banco. Stile asciutto che non vuole scioccare ad ogni costo, le ellissi ci sono e alcune risultano anche eleganti (la chitarra); un bravo al regista.
La tensione è sempre alle stelle perché da un tipo così ci si aspetta di tutto, merito anche dell'esordiente Michael Rooker (l'amico incazzato di Stallone in "Cliffhanger") che risulta così credibile da chiedersi se l'attore dell'Alabama abbia tutte le rotelle a posto.
Affascinanti e complete le altre due figure, anch'esse epravate a loro modo, dipinte nel film. In particolare "Becky", realistica rappresentazione di una donna che tira avanti sempre e comunque, buttando giù rospi a cui altri non s'avvicinerebbero neppure.
Insomma, un thriller con tutti i crismi che consiglio perché ha una sua personalità peculiarissima. Violentissima.
(depa)
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